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Categoria “Le Frontiere” | Blog

Il punto cieco alla base dell’Immaginario

Anche chi non si occupa di filosofia e psicoanalisi avrà di sicuro sentito parlare dello “stadio dello specchio”.

Lacan, reduce dallo studio di Merleau-Ponty e dai seminari di Kojéve su Hegel, propose una teoria ancora oggi centrale per molte questioni, in grado di spiegare il processo di strutturazione della propria identità da parte del bambino. L’io, infatti, aldilà dell’astrazione con cui per comodità lo definiamo, è tutt’altro che “identico a sé” e fisso. Ma già tutta la filosofia post cartesiana aveva cercato di insinuare questo presupposto.

L’aspetto interessante di questo “stadio dello specchio” è il ruolo dell’alterità (che diverrà poi centrale in tutto il discorso lacaniano). Il bambino per fuggire all’angoscia del proprio essere frammentato e riconoscere la propria immagine ha bisogno dell’alienazione offerta dallo specchio.  La certezza illusoria di essere un Io deriva da questa fase. Per questo tale fase è così importante per capire anche la necessità del Simbolico, il significante e la mancanza. Il “terzo” si inserisce nel punto cieco e impedisce la con-fusione narcisistica.

Il Deleuze del “ritorno al Reale” (il registro lacaniano per indicare l’esperienza non significabile) vorrebbe chiamare in causa il “corpo frammentato” che, nonostante tutto, rimane latente nell’essere umano, soprattutto se lo si considera, come lo stesso Lacan faceva, un essere in fieri, problematico, sempre figlio delle esperienze.

In questo senso anche il confronto problematico tra Lacan e Merleau-Ponty (i due si confrontavano spesso) ci risulterà proficuo.

Saranno infatti gli stessi tentativi di Ponty di superare una fenomenologia della mera percezione a stimolare Lacan a riformulare il proprio “stadio dello specchio” individuando nello sguardo un “oggetto pulsionale” che “rende possibile” la percezione.

Infatti, è proprio al Leib (corpo vissuto, diverso dal Korper corpo oggetto) della fenomenologia a cui Deleuze si avvicina anche quando parla di utilizzo trascendentale della facoltà, nel suo ritorno a Hume.

Quanto ci sia di “proprio” nel corpo vissuto è da indagare.

che le parole cessino di far testo

“Sì, Gilles Deleuze!, tu sai bene che – linguagio e/o linguaggio a parte – s’ha da essere “in forma” ogni notte di giorno […] che quel nulla firmato e sottoscritto siamo noi unicamente…”

1978: in Italia viene pubblicato un libro dal titolo “Sovrapposizioni”, Carmelo Bene e Gilles Deleuze si “incrociano”.

riccardo III scritto da Bene – un manifesto di meno di Gilles Deleuze – Ebbene, sì, Gilles Deleuze! , la risposta di Bene

 

 

Da Intervista non firmata, Rivista del cinematografo 1970

Perché fa dei film?

Non lo so nemmeno io: il giorno in cui lo saprò non li farò più

Blob, un cine(ma)ncato

“L’arte è una bugia che realizza la verità” – Pablo Picasso

Blob nasce nel 1989, dalle irrequiete menti dei critici enrico ghezzi e marco giusti. Erano gli anni del boom televisivo (doveva ancora arrivare internet) e il cinema si accingeva a nuove fasi. Il fermento è molto. L’intuizione, sviluppata anche grazie alle influenze deleuziane (i suoi due libri sul cinema sono dell’83 e dell’85 e a fine anni 80 si è già diffusa tra i critici cinematografici, stimolandoli a nuovi punti di vista sull’immagine-movimento) è di giocare con quella nemesi del cinema che sembra essere la televisione.

Pasolini denunciava come questa diventasse un vero e proprio ingombro in casa, capace di sostituire le relazioni umane, Fellini lottava contro la pubblicità che bloccava il continuum del film, chi per ragioni sociali, chi per altri artistiche, ma tutti in un modo o nell’altro esprimevano preoccupazione di fronte a questo nuovo mezzo prepotente e invasivo. Deleuze lo rileva chiaramente: con gli effetti speciali fini a sè stessi e la televisione, si tradisce il cinema, che si fonda sulla “durata”, non sulla presentificazione.

“Come è detto nei Misteri di Shangai: tutto può succedere in qualsiasi momento…”  Gilles Deleuze

Frontale con il presente

La presentificazione giustifica l’assimilazione inconsapevole delle immagini, e il rischio di bersi qualsiasi chiave di lettura ci venga proposta sopra alle immagini. Come se davvero le immagini avessero bisogno di una “messa in onda”, come se fosse più importante far vedere un su italia1 quel Mercoledi sera, invece che il film stesso.   Blob decostruisce e smaschera questa ingenua, ma subdola, tecnica della tv. Attraverso un montaggio spericolato, che ogni tanto sembra logico, in altri momenti sconlusionato, strascicato, rotolante… come a ri-mostrare che è il flusso televisivo a non avere senso, restituendo allo spettatore come sia lui a vedere e imporre un’interpretazione a quello che in realtà si presenta come appiattimento, pura passività.

ghezzi ci tiene a sottolineare come l’immagine in realtà non ci appartenga, pure quando pensiamo di dominarla.   Le immagini-movimento sfuggono all’interpretazione di qualcuno, al pensiero logico-rappresentativo. Da qui l’intuizione deleuziana di ghezzi: trasformare la presentificazione dell’immagine della televisione in un’immagine-durata che gioca con il non-detto della tv: l’illusione dell’istante. Le immagini nei media sono date per scontate ma proprio per questo se tolte dal montaggio, dalla scaletta, da chi vuole appunto fermarle, ra-ppresentarle, rivelano le proprie potenzialità, il proprio mondo pieno di visti e non visti.   “Le connessioni tra le immagini sono infinite, prendete un’immagine rigorosissima di Bresson e poi uno spezzone di varietà televisvo e per chissà quale alchimia un giorno trovano un legame” racconta ghezzi durante una sua lezione a dei giovani studenti di cinema.

Ma è lo stesso ghezzi in un suo articolo dell’84 sul volume “Cinema1 L’immagine-movimento” di Deleuze a sottolineare: “perfino l’ottusità che parrebbe l’assenza nel libro del video, della televisione, è invece il pregio di una chiarezza di sguardo, di sguardo sullo sguardo e con lo sguardo, che implica già il vedere di oggi, senza bisogno di comode video-sociologie dei simulacri alla Braudillard.”

In sintesi lo straordinario risultato di Blob è l’incredibile spazio di respiro che offre nel semplice mostrare un susseguirsi di immagini e sequenze, in quanto lascia immaginare qualsiasi connessione possibile allo spettatore,  liberandolo così dal giogo di una postura narrativo/visiva artificiosa e mistificante.

Il cinema secondo enrico ghezzi

“Paura e desiderio, cose (mai) viste” è il titolo di una raccolta di saggi cinematografici a cura del critico Enrico Ghezzi (fondatore di Fuori orario, cose (mai) viste e Blob).  Un semplice titolo a cui possiamo associare, con desiderio e paura di banalità, il primo film di Kubrick (Paura e desiderio, 1953), per ricordare l’elementare moto dell’inconscio e dell’immaginazione: il mantra freudiano “ogni paura è un desiderio”.

Eh si, perché a proposito di banalità, a sovvertire la logica e i conti che tornano, è proprio l’irriducibile inconscio. E lo sa bene Deleuze che vuole introdurre il movimento nel pensiero, senza cadere nell’astrazione come Hegel, ma fondando il pensiero di Differenza e ripetizione.

Ed è qui che arriva l’irriducibile cinema: paura e desiderio di un’immagine inafferrabile. Vogliamo vederla, ma in fondo sappiamo che non la conosceremo mai, che il segreto del suo movimento/tempo è a noi inaccessibile, che come ha detto Bonaga a Venezia78 “ci sottrae tempo, perché durante non hai tempo di vederlo”.

Caparezza, Fellini, inconscio, o Della scelta

Caparezza, Fellini, inconscio, o Della scelta

(cosa esplora “Fellini e l’ombra” di Catherine McGilvray ora al cinema)

Il documentario “Fellini e l’ombra” ci permette di riprende in mano e approfondire alcuni aspetti di Federico Fellini già accennati

“Tendere l’orecchio e il cuore a qualcosa che è quasi dimenticato e che non vorrei aver dimenticato” racconta la voce di Fellini. Ecco, ritroviamo già in questa frase la cifra del cinema di Fellini: la purezza dei personaggi di La strada o di Cabiria, la difficoltà di amare del Casanova, l’impossibile bellezza di  Sylvia, de La dolce vita, lo strano rapporto con la memoria in Amarcord e la crisi del regista di Otto 1/2. 

“I tuoi spiriti dicono sei libero, ma devi saper scegliere” dicono al protagonista di Otto 1/2. La “scelta” sembra ossessionare continuamente Fellini, anche le sue ultime due opere incompiute, il Mastorna e Tulum esasperano ancora di più la difficoltà “concludere”, che troviamo in ogni suo lavoro. Tanto è vero che scrive al produttore Dino: ” questa storia mi sembra una serie di entrate in cui non riesco a entrare”.

Come scegliere? Scegliere significa sciogliere un dubbio, de-cidere (tagliare), dare un significato. Caparezza nel suo ultimo disco dice di ispirarsi al Mastorna e al Guido sopra citati. Nel brano La scelta racconta la storia di due personaggi, che compiono scelte opposte, ma entrambe valide in quanto meditate e accettate. In fondo il momento della scelta è solo un’illusione.”Saresti capace di scegliere una cosa sola e farla diventare la tua ragione di vita?” chiede Guido a Claudia. Ebbene la cosa è in realtà impossibile.

Quando scegliamo infatti escludiamo e paradossalmente impediamo il presentarsi del dubbio (infatti lo sciogliamo) e quindi impediamo il presentarsi della necessità della scelta che però ci ha portato a compierla! Bel paradosso, ma è così che si costituisce il Tempo secondo Bergson e Deleuze. In Differenza e ripetizione lo scrive chiaramente: “il presente costituisce il tempo, ma è il passato puro a garantire il passare del presente”.

Ed è lo stesso Deleuze, nel capitolo sulle immagini-tempo cristallo, a esprimersi come farà Fellini nella lettera a Dino: “Il problema non è più sapere ciò che esce, e come, dal cristallo, ma al contrario, come entrarvi. Si riconosce il metodo che via via apparterrà a Fellini”.  E si perché è un “cominciamento”, “quello che si vede nel cristallo è lo zampillio della vita, il tempo nel proprio sdoppiamento”, e in Fellini assistiamo a germi di cristallo. “Il presente che passa e va verso la morte, il passato che si conserva e trattiene il germe di vita, non cessano d’interferire, di intersecarsi”

“Essere” Vasco Rossi (“che si dice del differente”)

“Pensare la ripetizione come lo Stesso che si dice del differente” Gilles Deleuze

“Come puoi dirmi di non fingere se la scelta di fingere è un bisogno reale, se togli l’Arte dal mio mondo è solo un posto banale!” Eyes wide shut, Caparezza

“Siamo qui, a nascondere quello che sei dentro quello che hai” Vasco Rossi 

Volgare, “cazzone” sopravvalutato, fenomeno di massa passeggero, “pesante”, superficiale…nel corso della sua lunga carriera (40 anni, 18 album, 191 canzoni, e più di 800 concerti), è cambiato molto e si è visto affibbiare così tante etichette, che alcune addirittura si contraddicono a vicenda. Tipico dei fenomeni superficiali e con poca sostanza verrebbe da dire…ma approfondiamo meglio.

Senza considerare chi lo ignora o lo disprezza, e andando semplicemente tra i suoi variegati fan, notiamo come a volte non venga apprezzato per intero e nonostante ciò venga comunque amato e riconosciuto come insostituibile…c’è chi apprezza maggiormente il Vasco irriverente degli anni 80 e si stufa di quello cupo/riflessivo degli anni 2000, chi considera solo quello romantico, chi quello politico e via così…ma a ben guardare due son le cifre stilistiche di Vasco: la capacità di mantenersi i fan nonostanti cambiamenti e talvolta pure delusioni, e la capacità di stupire ed essere sempre un passo più avanti degli stessi desideri dei fan…cosa forse che coinvolge la maggior parte del suo fedele popolo.

Perché se diamo uno sguardo alla sua lunga carriera troviamo di tutto meno che un percorso lineare, e se troviamo delle linearità sono solo ricostruzioni a posteriori artificiose. E la cosa più interessante è che nonostante le differenze tra una fase e l’altra possiamo trovare un continuum indivisibile. Ma vediamo meglio di cosa stiamo parlando:

Vasco comincia negli anni 70 con canzoni come “faccio il militare”, “Jenny è pazza”, “Colpa d’Alfredo “, Albachiara”. Canzoni che fanno rumore, quasi “parlate”, sfoghi, con volgarità che scandalizzano certi moralismi dell’epoca, ma che poi diventeranno quasi leggere in confronto a volgarità ben maggiori che arriveranno in futuro. Già qui notiamo come il fenomeno Vasco sia avanti rispetto ai tempi, ma non per lanciare nuove mode (era quasi sconosciuto all’epoca) e farsi “traghettatore”, semplicemente per un’aderenza a se stesso, ai propri di tempi.

Ma è proprio “Siamo solo noi” negli anni 80 a lanciarlo verso il successo, una canzone che parla di “sconnessione”, che “vuole solo vomitare”. Ma ancora una volta la fraintendiamo se pensiamo a una canzone che vuole reagire e contrapporsi e non ne cogliamo il flusso: vuole solo vomitare alle orecchie di chi vuol sentire…e parlare “le parole”, è una canzone muta, come “Jenny è pazza, non vuol più sentire, non sente le voci che il vento le porta…” Per questo Vasco dice molto bene quando definisce la”Zitti e buoni” dei Maneskin, la loro “siamo solo noi”. “Parla, la gente non sa di che cazzo parla, siamo fuori di testa, ma diversi da loro”.

Il successo arriva inaspettato perché come dice spesso Vasco, pensava di parlare solo a se stesso proiettandosi in quel “noi”, è il riconoscersi di molti in quell’indifferenziato a generare il “noi”. Ognuno ci mette del proprio in quel “siamo solo noi”. A unire è l’incertezza, la difficoltà a riconoscersi in un’identità.

Ed è qui che arriva il primo grande passo “falso” di Vasco: “voglio una vita spericolata, come quelle dei film”. Spiazza tutti, arriva ultimo a Sanremo e poi primo nelle radio e nei dischi, ma soprattutto riazzera tutto quanto detto prima, ora vuole essere “unico”, non più quel “noi” stanco e indifferenziato.

Gli anni 80 e 90 sono vivaci ma al contempo inquieti, Vasco sente questi contrasti nell’aria e compone canzoni come “C’è chi dice no” e “Gli spari sopra”.  Ma ancora una volta, registrando le atmosfere di un’epoca trova un pretesto per continuare il proprio di discorso, parallelo a quello delle epoche in cui vive. In fondo il paradosso è questo, noi siamo parte del mondo e al contempo fuori di esso, dis-connessi, siamo un “esser-ci” del mondo, direbbe Heidegger, “gettato”.

Arrivano gli anni 2000, le contraddizioni esplodono, si affaccia un nuovo millennio. “Stupido hotel”: Cielo senza nuvole… Un amore utile… Sempre alla ricerca… Dov’è, fin là… Dov’è, questa felicità! Sono anni difficili per Vasco, quelli in cui muore l’amico Riva e si affaccia la depressione…

“Siamo soli”, Buoni o cattivi”, “Anymore”, “Un senso”, “Senorita”…

Arrivano poi gli anni 10 con “Vivere o niente” ed “Eh già, io sono ancora qua”. Nel 2012 rischia proprio la vita a causa di un batterio nel miocardio e ne esce rinato.

Sono questi anni di profonda meditazione, i più cupi, riflessivi e al contempo quelli in cui la sua energia si manifesta maggiormente.

Infine nel 2017, prima di partire per Los Angeles, affrontando la propria fobia per l’aereo, compone “Un mondo migliore”, una canzone che di nuovo stupisce e rilancia il proprio dis-corso. La rinascita non ha più bisogno della cupezza per parlare, è lei stessa a parlare, è una paradossale “rinascita in crisi” quella di “Un mondo migliore”. Si sbaglia a intenderla sempre come una rinascita da una crisi. Cogliendo la “differenza” insita nel suo discorso (direbbe Deleuze) è la rinascita in se stessa che parla: “sai essere liberi…costa soltanto qualche rimpianto…”.

Ha già capito che non si può giocare con il diavolo nel 2011 “al diavolo non si vende, si regala, eh già”, e ora scommette quello che gli è rimasto. Scommette il risultato della partita impossibile da giocare, bel triplo paradosso…

Comincia Modena Park, il concerto epocale prequel dei Vasco NonStop live. Il 2019 è l’anno della “Verità”, “non guarda i film già visti, non ama le pubblicità”.

Arriva poi come un fulmine a ciel sereno il 2020, con il coronavirus e i lockdown. Come giocare questa nuova partita? Con una canzone d’amore buttata via.

 

Oltre i limiti: la fantascienza al cinema

La fecondità del genere

Ci si concentra molto spesso sulla capacità della narrativa fantascientifica di prevedere o meno il futuro, o di come attraverso la propria libertà di manipolare spazi e tempi sappia intercettare cambiamenti sociali, tecnologici o culturali, prima che questi avvengano. E’ sempre molto interessante, perché ci permette di capire come la fantasia spesso ci aiuti a ragionare sul tempo presente e sulle nostre aspettative verso il futuro, forse ancora di più di altre opere, in quanto capace di muoversi più agevolmente tra diversi “mondi”: un autore può immaginare una storia ambientata nell’antico Egitto e al contempo in un lontano pianeta nel futuro.

Il potenziale della fantascienza

In tutto ciò però si trascura la potenzialità maggiore della fantascienza, la vera radice dei più grandi successi del “genere”: il contrasto scienza e fantasia. Pensiamoci bene: cosa accomuna 2001, Blade Runner, Dune (romanzo e film), Matrix, Arrival e simili se non l’audacia di mostrare spazi e tempi a noi inaccessibili, attraverso giochi di suggestioni letterarie o visive? Cos’è il dialogo interiore di Paul Atreides e la “Voce” delle Bene Gesserit se non un formulario poetico, a noi accessibile solo per via suggestiva? Cosa sono i personaggi “simbolici” di Matrix, capaci addirittura di ridefinirsi durante il film (l’agente Smith da nemico esterno a parte essenziale di Neo)? O le immagini di 2001, radicalmente lacunose e al contempo fluide?

Kubrick a proposito della sua gioventù come fotografo raccontava di come attraverso la fotografia andasse a mostrare quella capacità di guardarci insita nel quotidiano inosservato, una sorta di occhio cieco che è poi quello della realtà, la sua impenetrabilità che ci fissa. L’occhio di Hal che vede tramite una mente senza corpo (dislocata nell’astronave). (vedi le lucide analisi di Michael Chion su 2001).

Ecco la fantascienza: la presenza del monolite. Qui, presente, reale, ma al contempo insondabile. “Cosa significa?” chiede Neo a Morpheus e gli altri. “Significa allacciati le cinture Alice, perché ne vedrai delle belle”.

“Io ho visto cose…che voi umani non potreste immaginare” dichiara Roy nel celebre finale di Blade Runner. L’umano atterrito, come il volto di Deckart (interpretato da Harrison Ford, Indiana Jones).

Ecco allora che la fantascienza capisce, cerca, gioca con la realtà-flusso. I codici di Matrix, gli stessi rivolgimenti repentini dei ruoli dei personaggi e dei piani di realtà (l’iconica libertà anarchica delle sorelle Waciosky), il linguaggio che viaggia nel tempo di Arrival, la sabbia e la spezia di Dune

Neo è costretto a saltare, perché in fondo forse la verità sta dentro di lui. Nel flusso si può solo saltare, come fanno gli stessi Roy e Deckart in Blade Runner…e nel frattempo un treno passa, il treno che colpisce il fantoccio/l’agente Smith di Matrix.

Per questo la fantascienza insegue il cinema, lo cerca con irrequietezza…2001 non a caso è considerato il film DEL cinema per eccellenza, per non parlare del labirintico Shining…”Il labirinto  ggelato di Shining è un dedalo all’origine del cinema” scrive enrico ghezzi.

Nella fantascienza troviamo in realtà l’essere umano, la sua libertà e il vuoto che la circonda…”lo senti quello  signor Anderson? E’ il suono dell’inevitabilità” sussurra Smith sul binario mentre sta arrivando il treno, ma Neo risponde “mi chiamo Neo!” e si libera della sua presa saltando fuori dal binario!

Non siamo così lontani dal cinema di Bergman,  dove i personaggi appaiono atterriti dalla libertà…

L’umano, quell’essere che costruisce la realtà e non la subisce, oltre il binario, che è anche il binary code delle macchine: 1 0 1 0 1 0 1 0….

Possiamo dire, che la fantascienza esemplifica l’essenza del cinema, perché il cinema non vuole semplicemente proporre una copia del mondo reale, ma ricreare un proprio mondo…

“Con il cinema è il mondo che diventa la propria immagine, e non un’immagine che diventa mondo” Cinema 1, L’immagine-movimento, Gilles Deleuze (1983)

Ma cos’è l’inconscio? (il concetto di “passato puro”)

Se ne è sentito molto parlare con Freud, ma cos’è esattamente l’inconscio? Conosciuto volgarmente come “sub-conscio” si utilizza il termine per indicare tutto ciò che psicologicamente non controlliamo. Ma che cosa in fondo controlliamo quando pensiamo? La vera “scoperta” è che non c’è un momento “chiaro e distinto” (alla Cartesio) in cui noi diciamo “io sono questa coscienza”, non ci ricordiamo quando abbiamo cominciato ad essere coscienti, così come non riusciamo a fermare il nostro pensare. Per questo la psicoanalisi indaga il nostro “stare nelle parole”, il nostro “parlare ciò da cui si è parlati” direbbe Lacan.

In verità siamo sempre inconscio, nel senso che non riusciamo a pensare ciò che ci pensa.

Il primo a mettere in questione le idee chiare e distinte di Cartesio non fu Freud, ma forse Leibniz, quando ci racconta della strana esperienza acustica nei pressi di una cascata: cogliamo solo inconsciamente ogni goccia d’acqua perché ciò che sentiamo è un rumore chiaro e confuso, piuttosto che distinto, e ciò che è distinto ci rimane oscuro.

Bergson chiama questo sfondo “inquieto” (inteso come chiaro-confuso e distinto-oscuro) del pensiero “durata”, o “passato puro”. Alla base della Memoria non c’è quindi un’idea chiara e distinta, ma un “immemoriale”. E’ ciò che, secondo Bergson, fa confondere continuamente la percezione con il ricordo, rendendo impossibile distinguere dove inizi esattamente l’una e dove l’altra. E’ anche ciò che rende inafferrabile l’istante, costituendo il paradosso del presente, come sdoppiato in un getto che si slancia da una parte nel passato e dall’altra nel futuro.

Per questo Deleuze si occupa così tanto della “differenza”, e che se vogliamo parlare correttamente di “ripetizione, ovvero di qualche cosa che rimane e che torna, occorre pensarla a partire dalla “differenza”.  Ed è per questo che non si può vedere in maniera diretta il Tempo in cui avviene l’immagine-movimento del cinema classico. Vediamo delle immagini scorrere secondo narrazioni ma non possiamo vedere ciò che le fa scorrere. Solo dopo puoi cercare un po’ di dare un resoconto di quello che hai visto, ma durante non puoi dire veramente quel movimento autonomo che ti si mostra davanti. In questo senso Jean Louis Schefer parlava del Cinema come di un Mostro che fa un’esperienza diretta di Tempo a noi inaccessibile.

Solo con il cinema cosidetto moderno dell’immagine-tempo possiamo vedere il Tempo direttamente, ma perché l’immagine si presenta ambigua, instabile, già caratterizzata da quell’incomponibilità che il montaggio classico mostrava indirettamente. In sintesi il Tempo è “inquietudine”, “paradosso” e l’instancabile lavoro della macchina Cinema, consapevole della relatività di ogni punto fisso,  non fa che parlarlo, esprimerlo. L’istante, che inafferrabile costituisce il nostro vivere, al Cinema è già dato (o meglio “durato”).  Per questo dialogare con il Cinema significa dialogare con noi, con quella parte di noi sfuggente, sempre sullo sfondo, eppure così “presente”.

 

 

“Ci hai mai fatto caso che quando sogni ti ci ritrovi in mezzo ma non ti ricordi mai l’inizio?” Inception, Cristopher Nolan.

Villeneuve e il cinema portato al proprio limite

Denis Villeneuve e il rapporto con l’immagine

Siamo abituati a descrivere ogni cosa che vediamo così tanto da pensare che immagine e parola siano la stessa cosa, ma con Bergson abbiamo imparato che l’immagine viene prima della parola. Prima di dire cosa stiamo guardando la stiamo già guardando. E’ il paradosso della percezione, che mentre si forma si confonde con il ricordo.  Villeneuve nei suoi film sembra aver intuito questa potenzialità propria dell’immagine.

La percezione de-spostata

Pensiamo ad Arrival e al recente Dune, due kolossal fantascientifici tratti da due intriganti romanzi: “quando” avviene esattamente quello che viene narrato, se spazio e tempo come li conosciamo vengono messi in discussione? Da che punto è vista la storia?

Ma pensiamo anche a Prisoners, un giallo-crime che ci insinua continuamente una curiosità incredibile verso la scoperta dei colpevoli, salvo farci capire, una volta scoperti, che questa curiosità non era tanto per i colpevoli ma per tutto quello a cui assistiamo, che il film stesso era “curiosità” verso un male senza (as)soluzione.  La preghiera iniziale, e gli ossessivi sguardi nel vuoto/vicoli ciechi  dei personaggi, non fanno che “bucare” in una situazione che è già degradata, proprio come l’alcool in cui si affoga il protagonista. In Sicario apre con l’orrenda e agghiacciante scoperta dei corpi nel muro, per poi virare l’horror in un action/spy movie vivace e stimolante, salvo concludersi in un desolante e cinico finale. Per farci ammettere che era meglio l’orrore della scena iniziale, perché almeno “innocente” nella sua anonima, per quanto inconcepibile, ripugnanza.

C’è sempre un punto cieco, di lato, che consente di percepire l’intero del film, la sua narrazione, i suoi cambiamenti…Sono i silenzi, le inquadrature anonime (senza sguardo di qualcuno, depersonalizzate).

La cinepresa di Villeneuve è ” inquadratura spostata” fin dall’inizio, in una strana messa a fuoco, che è al contempo sfocatura, una profondità di campo che è al contempo “sospensione del giudizio”. All’inizio di Prisoners assistiamo al protagonista disperato alla ricerca della figlia rapita, ma al contempo assistiamo all’incredulità di questo improvviso avvenimento: la cinepresa si muove quasi fosse una ripresa amatoriale (ma non lo è), rimane ferma su angoli della casa come una “natura morta” qualunque, mentre si svolge un dramma (atipico per un film drammatico che dovrebbe centrarsi su primi piani disperati e dettagli angoscianti). C’è un non-detto in quella scena che altro non è che l’avvenimento in corso. Ecco perché Villeneuve ha abbracciato con disinvoltura la fantascienza…gli alieni che parlano tramite il tempo cosa sono se non questi “buchi neri” del “vissuto”, che come tale è espressione di eventi ma al contempo l’evento stesso, perché inseparabile da esso?

Con Dune Villeneuve scrive un manifesto del proprio stile

L’universo narrativo-simbolico di Dune

“Dune” non è mai stato facile da girare. Il romanzo di Frank Herbert, capostipite della fantascienza (George Lucas si è ispirato per Star wars per fare un esempio), è ricco di parole ed espressioni suggestive, incredibilmente scorrevoli nella scrittura, rispetto ai tempi del cinema.  Il surrealista cileno Jodorowksy ci aveva già provato, coinvolgendo raffinati disegnatori come Moebius e talenti di cinema come O’ Bannon (co-autore di Dark Star e Alien), ma il costo produttivo del progetto scoraggiò Hollywood. Lynch ereditò il progetto, ma dovette scendere a molti compromessi con la produzione, fino a rimanere egli stesso deluso dalla propria opera.

Villeneuve si confronta quindi, con un universo tutt’altro che semplice, e solo con questa consapevolezza possiamo confrontarci con questo nuovo sguardo al romanzo di Herbert. Si rinfaccia spesso a Villeneuve la lentezza dei piani sequenza (un po’ come con Sorrentino) ma non si coglie il senso di questi suoi movimenti di macchina, se non si presta attenzione ai momenti in cui vengono utilizzati e al loro rapporto con il sonoro.  Con uno sguardo attento possiamo infatti cogliere che le sue sequenza più riuscite sono quelle in cui i “non detti”, o le “sospensioni” di giudizio morale o di senso narrativo, vengono compensate da inquadrature altamente espressive, accompagnate da un “sonoro” predominante rispetto al “visivo” che risulta incompleto, mancante di informazioni.

Dune nel cinema di Villeneuve

Ecco perché il romanzo di Herbert si presenta ideale per la poetica di Villeneuve.  E’ vero, Villeneuve decide di trasporre solo metà romanzo e l’intreccio narrativo si fa molto debole (sembra quasi di vedere un trailer di 2 ore), vengono tagliate molte caratterizzazioni dei personaggi rispetto al libro, e privilegiate per parti più suggestive, ma le immagini sono molto forti e incredibilmente riuscite. Inoltre, il venir meno della trama, rinforza il protagonismo delle immagini. Sempre guardando il film senza pregiudizi e lasciandoci trasportare, possiamo cogliere come ogni sequenza non è mai montata a caso ma si inserisce con precisione in un discorso non compiuto narrativamente, ma poeticamente, nel senso che non c’è mai una conclusione, ma sempre un rimando (attenzione però, un rimando non esterno, bensì interno, come in una poesia).

In fondo era l’obiettivo anche del Dune di Lynch, prima di venir snaturato dalle politiche produttive schiave del “narrativo”. Il vero potenziale di Dune è la sua potenzia immaginaria…il suo essere una matrioska narrativa, ogni dettaglio, al pari di una monade leibziana è specchio del totale, senza bisogno di un totale, è completa narrazione esso stesso. Insomma la vera forza del romanzo è la sintesi, a dispetto della lunghezza materiale (pagine e ore nel caso del film).

Gli attori sono scelti e guidati perfettamente, la musica di Hans Zimmer è calzata molto bene. Villeneuve ha saputo regalarci un’opera molto raffinata esteticamente, omaggiando al contempo il romanzo, la tradizione ad esso legata e il proprio cinema, basato come analizzato anche in un altro articolo, sulla sospensione di uno sguardo totalizzante e il rimando a un particolare occhio interiore.