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Guadagnino: non il corpo che ci manca, ma noi che manchiamo al corpo

C’è una straordinaria frase di enrico ghezzi sul tempo che recita così: “non è il tempo che ci manca, ma siamo noi a mancare al tempo”. Ebbene, riflettendo sul cinema di Luca Guadagnino, riguardando i suoi film e ascoltando le sue interviste mi sono reso conto che per lui la formula potrebbe essere: “non è il corpo che ci manca, ma siamo noi a mancare al corpo”.

Nato come critico prima che regista, fan di Bertolucci e appassionato lettore di Lacan, Guadagnino ha sempre “goduto” del cinema, ecco perché a tratti può apparire “autistico”, non-parlante eppure espressivo, come l’oggetto piccolo (a) a cui si riferisce Lacan per indicare il godimento.

Per capire dove va a parare lo sguardo di Guadagnino basta a pensare a come ci racconta i punti di forza dello Spiderman di Sam Raimi:  “Spiderman 1 e Spiderman 2 sono due film che hanno un’idea di punto di vista, cioè un’idea di cinema, forgiano un immaginario, anche solo il principio estetico di saltare da un palazzo all’altro tramite la ragnatela, ti faceva vivere la fisicità di Spiderman, adesso i Marvel Movie hanno perso la fisicità” (da un’intervista rilasciata a BadTaste: https://www.youtube.com/watch?v=MIbHjdBLaII )

C’è una  frase geniale di Michel Focault riguardo al corpo che riteniamo appropriata citare: “il corpo, esterno  che si può esperire solo dall’interno, con questa sua invisibilità è l’origine delle utopie”.

Riconosciamo un film di Guadagnino (ma anche la serie “We are who are”) quando vediamo la telecamera “misurare” la distanza  vertiginosa tra la persona e il proprio desiderio, quando la mancanza non è vuoto ma eccesso (il surplus del godimento), quando i personaggi seppur incomprensibili ci emozionano comunque, quando come nella scena finale di “Bones and all”, quella pulsione che fino a quel  momento li aveva scavati, quella pulsione, quell’estremo bene e quell’estremo male, quell’insopportabile finalmente trova un senso.

Dice bene Deleuze quando commenta l’oggetto piccolo (a) di Lacan. “l’oggetto virtuale non  manca soltanto in rapporto all’oggetto reale cui si  sottrae, manca di qualcosa in sé, essendo sempre una metà di se stesso […] essa è là dove è solo a patto di non essere dove essere. Non è là dove la si trova  se non a condizione di essere cerca dove non è.” Ecco perché nella pulsione ci rendiamo conto che siamo noi a mancare al corpo.

Sorrentino e il trucco di esistere

Prendiamo in esame una scena de “La grande bellezza”, quella in cui Jep Gambardella parla con un suo amico “mago”/illusionista.

La scena inizia con una panoramica in movimento che si avvicina lentamente a Jep, il quale appare dopo pochi secondi mentre si avvicina. Prima nota: la telecamera è già dentro al luogo verso dove Jep si sta dirigendo, e non solo, la scena inizialmente è deserta e Jep appare dopo pochi secondi.

Jep e la telecamera si vengono incontro fino a che non vediamo Jep in piano medio intento a guardare dall’alto verso il basso con un certo stupore. Notiamo anche come egli tenga una mano in tasca e con l’altra mano una sigaretta, mentre assume una postura sbilenca (anche la luce si disegna a mezza luna coprendogli gli occhi).

Con una panoramica da dietro finalmente possiamo vedere cosa Jep sta osservando, una giraffa. Allora non era così deserto quel luogo? Il deserto è abitato. E questa è una prima eco heidegeriana/holderliana.

Di nuovo inquadrato in primo piano, Jep si toglie il cappello mentre la telecamera si alza sempre di più sopra di lui, con un movimento vertiginoso, tanto che verrebbe da dire: sta alzando il collo anche lui?

Ed ecco la giraffa finalmente in soggettiva.

Una voce fuori campo “Jep!” E’ Arturo, il suo amico mago che si è accorto di Jep e si avvicina a lui chiedendogli con un accento straniero “che ci fai da questi parti?” “Arturo? Ma che ci fai tu qua?” risponde Jep. “Come che ci faccio? Provo il mio spettacolo di magia…questo è il numero clou di domani sera, la scomparsa della giraffa!” (con fare cadenzato)

Dopo un dialogo campo-controcampo sul numero di magia, Jep inquadrato in piano medio, con la presenza di Arturo solo suggerita, chiede “e allora fai sparire pure a me!”.

Seconda nota: la presenza dell’altra persona viene suggerita, ma paradossalmente essa si fa maggiormente sentire. Si può dire che la presenza persiste nel suo essere presente anche se non la si guarda per intero. Non solo ma nel piano medio di Jep questa volta l’inquadratura si ferma insistentemente come a intensificare il sentimento provato dal protagonista. Con il solo cambio di prospettiva (un trucco) Sorrentino ci mostra l’interiorità e il sentimento del personaggio.

E infatti Arturo risponde: “Ma Jep…se si potessero davvero far sparire le persone pensi che me ne starei qui a far queste baracconate? E’è solo un trucco, è solo un trucco“. E mentre parla viene inquadrato lasciando maggior spazio vuoto a sinistra (la direzione da cui parte lo sguardo che rivolge a Jep). Di nuovo la presenza della persona viene suggerita da un’inquadratura per così dire “inter-soggettiva”.

Mentre Arturo rimarca “è solo un trucco” dall’alto  vediamo parte della giraffa, Arturo che se ne va e un’altra figura che compare dietro a Jep: è Romano, il suo amico.  NEL MOMENTO in cui Jep guarda Arturo viene guardato da Romano, ecco l’illusionismo.

La venuta in avanti dell’amico avviene mentre Jep sta guardando l’andata provvisoria dell’altro. Non si fa in tempo a lasciare qualcosa che ne arriva un’altra.

Romano è triste anche se dice che il suo spettacolo è andato bene, “hanno applaudito”. “E allora perchè sei così triste?” “Ma non so’ triste..”

“Che ci fa quella giraffa là?” chiede Romano, ma più per cambiare discorso e rimanendo solido nel suo cruccio (per tutto il film è un personaggio malinconico, non a caso in questa scena vestito di nero).

Ed eccolo dopo inquadrato in primo piano mentre racconta a Jep di essersi stufato di Roma e di voler andarsene via.

Ma anche questo è solo un trucco…un’escamotage, una reazione. Il nostro far su e giù, il nostro camminare è il nostro pro-gettare (il nostro essere presi da qualcosa), direbbe Heidegger. E’ il nostro modo essere-al-mondo.

E infatti dopo che Romano se n’è andato appare Arturo che ha eseguito la scomparsa della giraffa NEL MOMENTO in cui  Jep stava salutando l’amico e si stava per rigirare. “Jep? Hai visto?”

Arturo non solo nel frattempo che Jep parlava con Romano era tornata (anche se lo deduciamo) ma ha anche eseguito il numero di magia (anche se non sappiamo esattamente quanto ci abbia messo a farlo). E in fondo anche se Jep fosse rimasto a guardare avrebbe comunque visto una magia, e non visto del tutto il trucco.

Ma attenzione, si fa un errore a pensare ai due piani della scena come divisi, la magia sta nella complementarietà dei due piani, nel fatto che Jep partecipi a una sola scena. Non fa in tempo ad accadere una cosa che accade anche l’altra.

Possiamo dire con un linguaggio heidegeriano, che si  lasciano-accadere le cose proprio mentre le si man-tengono. In questo senso si collega e si custodisce, secondo Heidegger era questo il senso del logos (parlare, legare) inteso come “raccoglimento”.

scena giraffa La grande bellezza

Il cinema bigger than life – ovvero come ho imparato ad amare Spielberg

“Entrare nel cinema è rientrare nel mondo, nello stesso mondo in cui ogni rappresentazione è fallita…,perché forse davvero il cinema è più grande della vita, bigger than life” enrico ghezzi.

 

Si può dire molto a proposito dell’ultimo film di Steven Spielberg ma alla fine questa frase di ghezzi sul cinema, quasi “lapalissiana”, ci sembra la frase giusta per rendere giustizia a un film che è al contempo un’auto-biografia, un semplice film tra tanti, un film-testamento,  di uno degli autori hollywodiani più iconici e incisivi di sempre.

Spielberg: commerciale o d’autore?

Proprio come racconta il film stesso, Spielberg ha sempre navigato tra il lato “scientifico, tecnico, logico” del padre e quello “creativo, emotivo” della madre, e forse in questo stesso dualismo si nasconde una sua cifra distintiva, che lo distingue da una facile classificazione. Ci si concentra spesso sul lato contenutistico (storie semplici, universali, da botteghino…), ma quasi mai sulla capacità di giostrarsi tra i generi con disinvoltura e sulla cifra stilistica del creatore di favole cinematografiche par excellence…

E forse, proprio con questo film, Steven mette il punto sulla propria filosofia di cinema.

Pensiamo all’inizio del film (e della sua vita): il protagonista Sammy cerca di ricreare con il proprio treno giocattolo quell’incredibile esperienza irripetibile della sua prima volta al cinema. La tecnica insiste, si perfeziona, migliora, e tutto per cercare di rievocare qualcosa che in realtà è inevocabile: un incontro, con qualcosa che lo ha travolto. Ironia, a essere mostrata è proprio una scena con un treno che travolge tutto, presente nel film “Il più grande spettacolo del mondo” di DeMille (film che fu davvero il primo visto al cinema di Steven). Sammy prova a ricreare quella scena con il trenino giocattolo regalatogli dal padre, ma ecco che il trenino si rompe, la realtà è diversa dal film.

Non si potrà mai propriamente vedere ciò che Sammy ha visto davvero al cinema. 

E’ il primo momento di consapevolezza di Sammy.

Il padre si arrabbia e gli ricorda che bisogna imparare a rispettare i regali ricevuti. E così accadrà per i lavori seguenti: il filmino di famiglia ” si romperà” alla scoperta, durante il montaggio delle riprese, di una relazione segreta della madre con l’amico di famiglia. Sammy mostra alla madre quanto scoperto durante le riprese, ma tutto ciò accadrà in uno stanzino buio, dove lei rimarrà da sola con le immagini proiettate sullo schermo. Per poter comprendersi (mamma Mitzi e Sammy) devono camminare su quel confine che li separa. Da qui il buio, l’unico spazio che può ospitare quell’incontro.

La cinepresa diventa letteralmente un terzo braccio. E non solo perché a un certo punto la porterà sulle spalle quasi come un’amica. Una compagna speciale come E.T., capace di essere amichevole con tutti, e la cui stra-ordinarietà e estraneità è solo la misura dei confini che separano le persone le une dalle altre. Pensate ai conflitti tra gli esseri umani, tutti presi dai propri diversi interessi elevati ad universali, incapaci di riconoscere E.T. Confondendo letteralmente il dito (quel dito) con la Luna.

In fondo è quello che Steven/Sammy vive nella sua famiglia e con i suoi coetanei, conflitti più grandi di lui e con i quali dovrà misurarsi. Per andare davvero incontro all’altro occorre “andare oltre” l’altro stesso.  Essere consapevoli dello scarto che ci separa. Ecco perché l’incontro tra Sammy e sua mamma avviene per il tramite di uno stanzino buio che li separa.

“Incontro ravvicinato del terzo tipo” per richiamare un suo film. O “il ponte delle spie” per citarne un altro.

Ma non è l’essenza del cinema stesso? Come ricorda Massimo Donà nel suo “Cinematocrazia” il  cinema per la sua vocazione all’universalità “sospende l’ancoraggio di un soggetto a un  mondo” (riprendendo le parole di Deleuze).

Il desiderio di vedere e andare oltre , il desiderio del bambino di scoprire il mondo, di toccare l’altro, di entrare in relazione, è ciò che paradossalmente ci fa ripiombare in noi stessi, tocchiamo l’altro solo nel momento in cui prendiamo consapevolezza dello scarto incolmabile che ci separa da lui. Ecco tutto il valore del dito di E.T.

Ed ecco che Mitzi, la mamma di Sammy, prende la macchina e i bambini per guidare senza una meta precisa durante il maltempo. Sembra pazza, ma lo dicevano anche a Truman quando capisce di essere in un “reality show” e comincia a guidare come un matto in cerca dell’orizzonte fittizio. “Non permettere mai a nessuno di decidere per la tua vita” dice mamma Mitzi a Sammy, proprio come Truman capisce di essere di più di quello che il Demiurgo del reality pensava…di non essere confinabile in un orizzonte..

Quell’orizzonte che non sta mai al centro, “altrimenti è un brutto film!” asserisce perentorio John Ford nel celebre colloquio di 5 minuti con Sammy! (avvenuto realmente a Steven)

Come non ricordare il nostro Deleuze, amante del decentramento (“faccio e disfo i concetti a partire da un centro decentrato”),  “Il cinema, con la variabilità dei suoi punti di vista, sospende l’ancoraggio di un soggetto al mondo” (da Immagine-movimento, Cinema 1), e ancora “”La mobilità dei suoi centri permette di accostarsi al regime acentrato dell’immagine-movimento, o piano di materia” .

Ecco perché non ci stancheremo di ripeterlo: il cinema nella sua essenza è un flusso che ci restituisce l’unicum del “qui e ora”.

Le creature di Spielberg (gli squali, i dinosauri, gli alieni…) altro non sono che l’incarnazione di questo “palloncino che si gonfia” che è il cinema. Misura di ciò che non si può misurare. “1941 allarme a Hollywood!” citando uno dei suoi primi film, che ebbe problemi nelle sale per eccessivo volume acustico…attenti alla bomba Spielberg!

Cinematocrazia / Donà e le frontiere

Era da un po’ che alle “frontiere” volevamo trattare di questo libro. L’autore Massimo Donà, filosofo allievo di Severino, decide di parlare ancora di cinema (dopo il volume “Abitare la soglia”) e prendendo in considerazione la filosofia bergsoniana-deleuziana.

“C’è qualcosa in Deleuze che mi attrae proprio in ragione della distanza che mi separa da esso”, dichiara nelle prime pagine. Formatosi sui ben più complessi volumi di idealismo tedesco, Hegel e Severino, il filosofo ammette una difficoltà e uno stimolo inedito, e non tanto per una complessità concettuale, quanto per la diversa provenienza filosofica del filosofo francese. Insomma, distanza, vicinanza, non si capisce bene dove si trovi Massimo Donà, se non sempre su qualche “soglia”, parola che a lui piace spesso evocare.

E non è la prima volta che lo si sente parlare in questi termini, anche in rapporto al suo maestro ha spesso dichiarato di avere ereditato una profonda vocazione alla “radicalità” che lo porta a prendere altre strade in virtù dell’eredità stessa. La solita storia dell’allievo che supera il maestro, ma occorre entrare più nel merito del suo discorso per coglierne la portata.

E’ Deleuze stesso a segnalare come la filosofia “operi un taglio nuovo tra le cose, riunendo in uno stesso concetto cose lontane e allontanando cose vicine”, la speculazione filosofica si nutre di “radicalità”, di incontri/scontri tra concetti lontani costretti a rilanciare ulteriori concetti e assoluti. Insomma, già dichiarando il proprio “modus philosophandi”, Donà, quasi senza accorgersi, si interfaccia con l’immanenza deleuziana.

Donà, in compagnia del pensiero deleuziano, si interroga niente di meno che sullo statuto dell’arte cinematografica in relazione alla filosofia. Come se il senso ultimo della filosofia convergesse con la missione artistica del cinema. Deleuze scriveva che il filosofo opera per concetti su un piano di immanenza, mentre il regista per rapporti di tempo/durata, ma allora cosa significa pensare/vedere (therein)/sentire?

Il cinema per Donà sembra addirittura realizzare quella vocazione propria della filosofia ma sempre difficilmente “toccata” con mano, a causa dei limiti della logica, quella vocazione a dire la verità assoluta che come tale non potrà mai confondersi con le determinatezze, le sole con le quali abbiamo continuamente a che fare. Quella dissimulazione (o sospensione di giudizio, epoché) necessaria al coglimento dell’assoluto.

A tal proposito il filosofo cita il geniale critico deleuziano Enrico Ghezzi: “senza che nulla cambi nella vita reale”.

Giudizio è scelta tra determinatezze. Sospinti dal senso pratico (giustamente, qui non lo si vuol negare ovviamente) siamo convinti di avere il controllo assoluto sul senso della nostra vita. In questo senso confondiamo  continuamente la prassi con il theorein (contemplazione, filosofia). Ma attenzione, non si tratta di relativismo, la filosofia vuole arricchire la realtà, non sminuirla.

L’uomo pipistrello e il corpo origine delle utopie

Ricerca della semplicità e ritorno a un “vero” Batman, fisico, sentito, sembrano essere i principi guida del nuovo film dedicato all’iconico supereroe.

Se la prima versione del “fantasista” Burton sembrava vocata a un particolare colorismo gotico (niente nero, ma carnevale di grigio e nebbia), complici del piango-rido del Joker-Nicholson, e la rivisitazione di Nolan un appiattimento dell’immaginario in favore di una profondità concettuale capace di andare al cuore umano del mito, quest’ultimo sembra il meno ambizioso, il più sincero tentativo da parte del cinema di fare Batman.

Non più competere con il fumetto o con filosofie letterarie, ma fare davvero Batman al cinema. C’è da dire che Burton fece già un piccolo capolavoro, regalandoci una versione del fumetto quasi in grado di reggersi da sola.  Nolan d’altra parte è riuscito a farcelo sentire vero, non tanto per l’abbandono dello stile caricaturale\infantile, quanto per la profondità umana e concettuale. Siamo passati dalla fantasia notturna di Burton, , letteralmente “a occhi aperti” nella Gotham sempre sveglia, al “realismo impossibile”, del preciso e passionale (ai limiti dell’ossessivo) Nolan. Dal sognatore ad occhi aperti, allo sveglio in cerca di sogni. Nolan sembra uno che li ha perduti i sogni, o che non se li ricorda più da tanto si ossessiona con essi, come il personaggio di Di Caprio di Inception…

Insomma, siamo ancora sulla motocicletta di Catwoman (Anne Hathaway) a guardare avanti consapevoli del passato,  come il pipistrello dell’iconico logo scuro, i cui occhi fanno tutt’uno con le ali. Abbiamo i sogni dietro, davanti, dappertutto.  Sembra questa la cifra simbolica dell’universo Batman: passato ossessivo da ricercare e al contempo desiderio di libertà e futuro. Batman è tutt’altro che una storia già vista/scritta.

Il nuovo Batman sceglie di giocare con l’elemento “ombra”, non più trattandolo come elemento scenografico (ma sempre in luce) o simbolo narrativo/concettuale, ma presentandocela come protagonista. Nulla di più cinematografico.

E’ cosi che vediamo davvero il vestito di Batman, l’ombra. E non è un caso che sia proprio questo film il più concentrato sulla Gotham mediatica (video messaggi, canocchiali, lenti a contatto che registrano, schermi ovunque…). Siamo noi, nella nostra quotidianità.

Già Focault lo aveva previsto con il Panopticon. Ma Batman, con l’anatogista/complice Enigmista (prequel di Joker) sembra dirci: fatelo, svelate tutto, anzi lo vogliamo, così finalmente vedrete l’invisibile, il mio corpo! E’ proprio così che Focault definiva il corpo, quando lo descriveva come “origine delle utopie” e interno che per potersi esperire si fa esterno.

 

C’è del cinema NEI cartoni animati

A distanza di quasi 40 anni dai volumi sul cinema di Deleuze e nel pieno dello sviluppo tecnologico dell’immagine è inevitabile chiederci: e il cinema d’animazione? E la CGI?

Deleuze cominciava L’immagine-movimento mettendo in luce come il cinema alla sua nascita fosse ancora immaturo e costretto a imitare la percezione naturale tramite un’inquadratura fissa dipendente dal movimento che documentava. Da qui deriverebbe anche il facile misunderstanding di Bergson, che nelle prime sperimentazioni cinematografiche vedeva un riproporsi di quel meccanismo del pensiero che vorrebbe dividere il movimento in step, invece che coglierlo nella sua “durata”.  Ma ben presto, acquisendo consapevolezza sul proprio potenziale, il cinema sarebbe diventato quel “creatore di eventi” (ovvero di “durate”) capace attraverso il montaggio e il movimento nelle immagini di fondare la propria realtà.

Da qui il recupero dell’immagine-movimento di Bergson e la concettualizzazione delle “immagini mobili di durata” del cinema. Deleuze, dunque, si rivolge al cinema, in quanto pensatore “differenziale” ed è qui che Tagliapietra nel suo volume sui cartoni animati nota nel pensatore una “differenza ideologica rimossa”. Insomma, tra l’istante qualsiasi del fotogramma cinematografico (“sezione immobile del movimento”), e l’immagine-movimento come “sezione mobile della durata”, il cartone animato si instaura su una “sezione mobile del movimento”, un’instabilità di fondo, il caos che il pensatore dell’immanenza cerca di navigare.

Insomma, se negli occhi di un pensatore come Deleuze c’è il cinema, sotto al suo naso e al suo respiro c’è il cartone animato. Se il cinema scopre che il tempo è misura del movimento e non il contrario, il cartone animato scopre qualcosa che a sua volta misura il tempo…forse il volume Cinema3 di Deleuze? Dopo “Immagine-movimento” e “Immagine-tempo”…

Il punto cieco alla base dell’Immaginario

Anche chi non si occupa di filosofia e psicoanalisi avrà di sicuro sentito parlare dello “stadio dello specchio”.

Lacan, reduce dallo studio di Merleau-Ponty e dai seminari di Kojéve su Hegel, propose una teoria ancora oggi centrale per molte questioni, in grado di spiegare il processo di strutturazione della propria identità da parte del bambino. L’io, infatti, aldilà dell’astrazione con cui per comodità lo definiamo, è tutt’altro che “identico a sé” e fisso. Ma già tutta la filosofia post cartesiana aveva cercato di insinuare questo presupposto.

L’aspetto interessante di questo “stadio dello specchio” è il ruolo dell’alterità (che diverrà poi centrale in tutto il discorso lacaniano). Il bambino per fuggire all’angoscia del proprio essere frammentato e riconoscere la propria immagine ha bisogno dell’alienazione offerta dallo specchio.  La certezza illusoria di essere un Io deriva da questa fase. Per questo tale fase è così importante per capire anche la necessità del Simbolico, il significante e la mancanza. Il “terzo” si inserisce nel punto cieco e impedisce la con-fusione narcisistica.

Il Deleuze del “ritorno al Reale” (il registro lacaniano per indicare l’esperienza non significabile) vorrebbe chiamare in causa il “corpo frammentato” che, nonostante tutto, rimane latente nell’essere umano, soprattutto se lo si considera, come lo stesso Lacan faceva, un essere in fieri, problematico, sempre figlio delle esperienze.

In questo senso anche il confronto problematico tra Lacan e Merleau-Ponty (i due si confrontavano spesso) ci risulterà proficuo.

Saranno infatti gli stessi tentativi di Ponty di superare una fenomenologia della mera percezione a stimolare Lacan a riformulare il proprio “stadio dello specchio” individuando nello sguardo un “oggetto pulsionale” che “rende possibile” la percezione.

Infatti, è proprio al Leib (corpo vissuto, diverso dal Korper corpo oggetto) della fenomenologia a cui Deleuze si avvicina anche quando parla di utilizzo trascendentale della facoltà, nel suo ritorno a Hume.

Quanto ci sia di “proprio” nel corpo vissuto è da indagare.

che le parole cessino di far testo

“Sì, Gilles Deleuze!, tu sai bene che – linguagio e/o linguaggio a parte – s’ha da essere “in forma” ogni notte di giorno […] che quel nulla firmato e sottoscritto siamo noi unicamente…”

1978: in Italia viene pubblicato un libro dal titolo “Sovrapposizioni”, Carmelo Bene e Gilles Deleuze si “incrociano”.

riccardo III scritto da Bene – un manifesto di meno di Gilles Deleuze – Ebbene, sì, Gilles Deleuze! , la risposta di Bene

 

 

Da Intervista non firmata, Rivista del cinematografo 1970

Perché fa dei film?

Non lo so nemmeno io: il giorno in cui lo saprò non li farò più

Blob, un cine(ma)ncato

“L’arte è una bugia che realizza la verità” – Pablo Picasso

Blob nasce nel 1989, dalle irrequiete menti dei critici enrico ghezzi e marco giusti. Erano gli anni del boom televisivo (doveva ancora arrivare internet) e il cinema si accingeva a nuove fasi. Il fermento è molto. L’intuizione, sviluppata anche grazie alle influenze deleuziane (i suoi due libri sul cinema sono dell’83 e dell’85 e a fine anni 80 si è già diffusa tra i critici cinematografici, stimolandoli a nuovi punti di vista sull’immagine-movimento) è di giocare con quella nemesi del cinema che sembra essere la televisione.

Pasolini denunciava come questa diventasse un vero e proprio ingombro in casa, capace di sostituire le relazioni umane, Fellini lottava contro la pubblicità che bloccava il continuum del film, chi per ragioni sociali, chi per altri artistiche, ma tutti in un modo o nell’altro esprimevano preoccupazione di fronte a questo nuovo mezzo prepotente e invasivo. Deleuze lo rileva chiaramente: con gli effetti speciali fini a sè stessi e la televisione, si tradisce il cinema, che si fonda sulla “durata”, non sulla presentificazione.

“Come è detto nei Misteri di Shangai: tutto può succedere in qualsiasi momento…”  Gilles Deleuze

Frontale con il presente

La presentificazione giustifica l’assimilazione inconsapevole delle immagini, e il rischio di bersi qualsiasi chiave di lettura ci venga proposta sopra alle immagini. Come se davvero le immagini avessero bisogno di una “messa in onda”, come se fosse più importante far vedere un su italia1 quel Mercoledi sera, invece che il film stesso.   Blob decostruisce e smaschera questa ingenua, ma subdola, tecnica della tv. Attraverso un montaggio spericolato, che ogni tanto sembra logico, in altri momenti sconlusionato, strascicato, rotolante… come a ri-mostrare che è il flusso televisivo a non avere senso, restituendo allo spettatore come sia lui a vedere e imporre un’interpretazione a quello che in realtà si presenta come appiattimento, pura passività.

ghezzi ci tiene a sottolineare come l’immagine in realtà non ci appartenga, pure quando pensiamo di dominarla.   Le immagini-movimento sfuggono all’interpretazione di qualcuno, al pensiero logico-rappresentativo. Da qui l’intuizione deleuziana di ghezzi: trasformare la presentificazione dell’immagine della televisione in un’immagine-durata che gioca con il non-detto della tv: l’illusione dell’istante. Le immagini nei media sono date per scontate ma proprio per questo se tolte dal montaggio, dalla scaletta, da chi vuole appunto fermarle, ra-ppresentarle, rivelano le proprie potenzialità, il proprio mondo pieno di visti e non visti.   “Le connessioni tra le immagini sono infinite, prendete un’immagine rigorosissima di Bresson e poi uno spezzone di varietà televisvo e per chissà quale alchimia un giorno trovano un legame” racconta ghezzi durante una sua lezione a dei giovani studenti di cinema.

Ma è lo stesso ghezzi in un suo articolo dell’84 sul volume “Cinema1 L’immagine-movimento” di Deleuze a sottolineare: “perfino l’ottusità che parrebbe l’assenza nel libro del video, della televisione, è invece il pregio di una chiarezza di sguardo, di sguardo sullo sguardo e con lo sguardo, che implica già il vedere di oggi, senza bisogno di comode video-sociologie dei simulacri alla Braudillard.”

In sintesi lo straordinario risultato di Blob è l’incredibile spazio di respiro che offre nel semplice mostrare un susseguirsi di immagini e sequenze, in quanto lascia immaginare qualsiasi connessione possibile allo spettatore,  liberandolo così dal giogo di una postura narrativo/visiva artificiosa e mistificante.

Il cinema secondo enrico ghezzi

“Paura e desiderio, cose (mai) viste” è il titolo di una raccolta di saggi cinematografici a cura del critico Enrico Ghezzi (fondatore di Fuori orario, cose (mai) viste e Blob).  Un semplice titolo a cui possiamo associare, con desiderio e paura di banalità, il primo film di Kubrick (Paura e desiderio, 1953), per ricordare l’elementare moto dell’inconscio e dell’immaginazione: il mantra freudiano “ogni paura è un desiderio”.

Eh si, perché a proposito di banalità, a sovvertire la logica e i conti che tornano, è proprio l’irriducibile inconscio. E lo sa bene Deleuze che vuole introdurre il movimento nel pensiero, senza cadere nell’astrazione come Hegel, ma fondando il pensiero di Differenza e ripetizione.

Ed è qui che arriva l’irriducibile cinema: paura e desiderio di un’immagine inafferrabile. Vogliamo vederla, ma in fondo sappiamo che non la conosceremo mai, che il segreto del suo movimento/tempo è a noi inaccessibile, che come ha detto Bonaga a Venezia78 “ci sottrae tempo, perché durante non hai tempo di vederlo”.