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Categoria ho già visto quel film ma non era quel film!

Il cinema bigger than life – ovvero come ho imparato ad amare Spielberg

“Entrare nel cinema è rientrare nel mondo, nello stesso mondo in cui ogni rappresentazione è fallita…,perché forse davvero il cinema è più grande della vita, bigger than life” enrico ghezzi.

 

Si può dire molto a proposito dell’ultimo film di Steven Spielberg ma alla fine questa frase di ghezzi sul cinema, quasi “lapalissiana”, ci sembra la frase giusta per rendere giustizia a un film che è al contempo un’auto-biografia, un semplice film tra tanti, un film-testamento,  di uno degli autori hollywodiani più iconici e incisivi di sempre.

Spielberg: commerciale o d’autore?

Proprio come racconta il film stesso, Spielberg ha sempre navigato tra il lato “scientifico, tecnico, logico” del padre e quello “creativo, emotivo” della madre, e forse in questo stesso dualismo si nasconde una sua cifra distintiva, che lo distingue da una facile classificazione. Ci si concentra spesso sul lato contenutistico (storie semplici, universali, da botteghino…), ma quasi mai sulla capacità di giostrarsi tra i generi con disinvoltura e sulla cifra stilistica del creatore di favole cinematografiche par excellence…

E forse, proprio con questo film, Steven mette il punto sulla propria filosofia di cinema.

Pensiamo all’inizio del film (e della sua vita): il protagonista Sammy cerca di ricreare con il proprio treno giocattolo quell’incredibile esperienza irripetibile della sua prima volta al cinema. La tecnica insiste, si perfeziona, migliora, e tutto per cercare di rievocare qualcosa che in realtà è inevocabile: un incontro, con qualcosa che lo ha travolto. Ironia, a essere mostrata è proprio una scena con un treno che travolge tutto, presente nel film “Il più grande spettacolo del mondo” di DeMille (film che fu davvero il primo visto al cinema di Steven). Sammy prova a ricreare quella scena con il trenino giocattolo regalatogli dal padre, ma ecco che il trenino si rompe, la realtà è diversa dal film.

Non si potrà mai propriamente vedere ciò che Sammy ha visto davvero al cinema. 

E’ il primo momento di consapevolezza di Sammy.

Il padre si arrabbia e gli ricorda che bisogna imparare a rispettare i regali ricevuti. E così accadrà per i lavori seguenti: il filmino di famiglia ” si romperà” alla scoperta, durante il montaggio delle riprese, di una relazione segreta della madre con l’amico di famiglia. Sammy mostra alla madre quanto scoperto durante le riprese, ma tutto ciò accadrà in uno stanzino buio, dove lei rimarrà da sola con le immagini proiettate sullo schermo. Per poter comprendersi (mamma Mitzi e Sammy) devono camminare su quel confine che li separa. Da qui il buio, l’unico spazio che può ospitare quell’incontro.

La cinepresa diventa letteralmente un terzo braccio. E non solo perché a un certo punto la porterà sulle spalle quasi come un’amica. Una compagna speciale come E.T., capace di essere amichevole con tutti, e la cui stra-ordinarietà e estraneità è solo la misura dei confini che separano le persone le une dalle altre. Pensate ai conflitti tra gli esseri umani, tutti presi dai propri diversi interessi elevati ad universali, incapaci di riconoscere E.T. Confondendo letteralmente il dito (quel dito) con la Luna.

In fondo è quello che Steven/Sammy vive nella sua famiglia e con i suoi coetanei, conflitti più grandi di lui e con i quali dovrà misurarsi. Per andare davvero incontro all’altro occorre “andare oltre” l’altro stesso.  Essere consapevoli dello scarto che ci separa. Ecco perché l’incontro tra Sammy e sua mamma avviene per il tramite di uno stanzino buio che li separa.

“Incontro ravvicinato del terzo tipo” per richiamare un suo film. O “il ponte delle spie” per citarne un altro.

Ma non è l’essenza del cinema stesso? Come ricorda Massimo Donà nel suo “Cinematocrazia” il  cinema per la sua vocazione all’universalità “sospende l’ancoraggio di un soggetto a un  mondo” (riprendendo le parole di Deleuze).

Il desiderio di vedere e andare oltre , il desiderio del bambino di scoprire il mondo, di toccare l’altro, di entrare in relazione, è ciò che paradossalmente ci fa ripiombare in noi stessi, tocchiamo l’altro solo nel momento in cui prendiamo consapevolezza dello scarto incolmabile che ci separa da lui. Ecco tutto il valore del dito di E.T.

Ed ecco che Mitzi, la mamma di Sammy, prende la macchina e i bambini per guidare senza una meta precisa durante il maltempo. Sembra pazza, ma lo dicevano anche a Truman quando capisce di essere in un “reality show” e comincia a guidare come un matto in cerca dell’orizzonte fittizio. “Non permettere mai a nessuno di decidere per la tua vita” dice mamma Mitzi a Sammy, proprio come Truman capisce di essere di più di quello che il Demiurgo del reality pensava…di non essere confinabile in un orizzonte..

Quell’orizzonte che non sta mai al centro, “altrimenti è un brutto film!” asserisce perentorio John Ford nel celebre colloquio di 5 minuti con Sammy! (avvenuto realmente a Steven)

Come non ricordare il nostro Deleuze, amante del decentramento (“faccio e disfo i concetti a partire da un centro decentrato”),  “Il cinema, con la variabilità dei suoi punti di vista, sospende l’ancoraggio di un soggetto al mondo” (da Immagine-movimento, Cinema 1), e ancora “”La mobilità dei suoi centri permette di accostarsi al regime acentrato dell’immagine-movimento, o piano di materia” .

Ecco perché non ci stancheremo di ripeterlo: il cinema nella sua essenza è un flusso che ci restituisce l’unicum del “qui e ora”.

Le creature di Spielberg (gli squali, i dinosauri, gli alieni…) altro non sono che l’incarnazione di questo “palloncino che si gonfia” che è il cinema. Misura di ciò che non si può misurare. “1941 allarme a Hollywood!” citando uno dei suoi primi film, che ebbe problemi nelle sale per eccessivo volume acustico…attenti alla bomba Spielberg!

C’è del cinema NEI cartoni animati

A distanza di quasi 40 anni dai volumi sul cinema di Deleuze e nel pieno dello sviluppo tecnologico dell’immagine è inevitabile chiederci: e il cinema d’animazione? E la CGI?

Deleuze cominciava L’immagine-movimento mettendo in luce come il cinema alla sua nascita fosse ancora immaturo e costretto a imitare la percezione naturale tramite un’inquadratura fissa dipendente dal movimento che documentava. Da qui deriverebbe anche il facile misunderstanding di Bergson, che nelle prime sperimentazioni cinematografiche vedeva un riproporsi di quel meccanismo del pensiero che vorrebbe dividere il movimento in step, invece che coglierlo nella sua “durata”.  Ma ben presto, acquisendo consapevolezza sul proprio potenziale, il cinema sarebbe diventato quel “creatore di eventi” (ovvero di “durate”) capace attraverso il montaggio e il movimento nelle immagini di fondare la propria realtà.

Da qui il recupero dell’immagine-movimento di Bergson e la concettualizzazione delle “immagini mobili di durata” del cinema. Deleuze, dunque, si rivolge al cinema, in quanto pensatore “differenziale” ed è qui che Tagliapietra nel suo volume sui cartoni animati nota nel pensatore una “differenza ideologica rimossa”. Insomma, tra l’istante qualsiasi del fotogramma cinematografico (“sezione immobile del movimento”), e l’immagine-movimento come “sezione mobile della durata”, il cartone animato si instaura su una “sezione mobile del movimento”, un’instabilità di fondo, il caos che il pensatore dell’immanenza cerca di navigare.

Insomma, se negli occhi di un pensatore come Deleuze c’è il cinema, sotto al suo naso e al suo respiro c’è il cartone animato. Se il cinema scopre che il tempo è misura del movimento e non il contrario, il cartone animato scopre qualcosa che a sua volta misura il tempo…forse il volume Cinema3 di Deleuze? Dopo “Immagine-movimento” e “Immagine-tempo”…

Blob, un cine(ma)ncato

“L’arte è una bugia che realizza la verità” – Pablo Picasso

Blob nasce nel 1989, dalle irrequiete menti dei critici enrico ghezzi e marco giusti. Erano gli anni del boom televisivo (doveva ancora arrivare internet) e il cinema si accingeva a nuove fasi. Il fermento è molto. L’intuizione, sviluppata anche grazie alle influenze deleuziane (i suoi due libri sul cinema sono dell’83 e dell’85 e a fine anni 80 si è già diffusa tra i critici cinematografici, stimolandoli a nuovi punti di vista sull’immagine-movimento) è di giocare con quella nemesi del cinema che sembra essere la televisione.

Pasolini denunciava come questa diventasse un vero e proprio ingombro in casa, capace di sostituire le relazioni umane, Fellini lottava contro la pubblicità che bloccava il continuum del film, chi per ragioni sociali, chi per altri artistiche, ma tutti in un modo o nell’altro esprimevano preoccupazione di fronte a questo nuovo mezzo prepotente e invasivo. Deleuze lo rileva chiaramente: con gli effetti speciali fini a sè stessi e la televisione, si tradisce il cinema, che si fonda sulla “durata”, non sulla presentificazione.

“Come è detto nei Misteri di Shangai: tutto può succedere in qualsiasi momento…”  Gilles Deleuze

Frontale con il presente

La presentificazione giustifica l’assimilazione inconsapevole delle immagini, e il rischio di bersi qualsiasi chiave di lettura ci venga proposta sopra alle immagini. Come se davvero le immagini avessero bisogno di una “messa in onda”, come se fosse più importante far vedere un su italia1 quel Mercoledi sera, invece che il film stesso.   Blob decostruisce e smaschera questa ingenua, ma subdola, tecnica della tv. Attraverso un montaggio spericolato, che ogni tanto sembra logico, in altri momenti sconlusionato, strascicato, rotolante… come a ri-mostrare che è il flusso televisivo a non avere senso, restituendo allo spettatore come sia lui a vedere e imporre un’interpretazione a quello che in realtà si presenta come appiattimento, pura passività.

ghezzi ci tiene a sottolineare come l’immagine in realtà non ci appartenga, pure quando pensiamo di dominarla.   Le immagini-movimento sfuggono all’interpretazione di qualcuno, al pensiero logico-rappresentativo. Da qui l’intuizione deleuziana di ghezzi: trasformare la presentificazione dell’immagine della televisione in un’immagine-durata che gioca con il non-detto della tv: l’illusione dell’istante. Le immagini nei media sono date per scontate ma proprio per questo se tolte dal montaggio, dalla scaletta, da chi vuole appunto fermarle, ra-ppresentarle, rivelano le proprie potenzialità, il proprio mondo pieno di visti e non visti.   “Le connessioni tra le immagini sono infinite, prendete un’immagine rigorosissima di Bresson e poi uno spezzone di varietà televisvo e per chissà quale alchimia un giorno trovano un legame” racconta ghezzi durante una sua lezione a dei giovani studenti di cinema.

Ma è lo stesso ghezzi in un suo articolo dell’84 sul volume “Cinema1 L’immagine-movimento” di Deleuze a sottolineare: “perfino l’ottusità che parrebbe l’assenza nel libro del video, della televisione, è invece il pregio di una chiarezza di sguardo, di sguardo sullo sguardo e con lo sguardo, che implica già il vedere di oggi, senza bisogno di comode video-sociologie dei simulacri alla Braudillard.”

In sintesi lo straordinario risultato di Blob è l’incredibile spazio di respiro che offre nel semplice mostrare un susseguirsi di immagini e sequenze, in quanto lascia immaginare qualsiasi connessione possibile allo spettatore,  liberandolo così dal giogo di una postura narrativo/visiva artificiosa e mistificante.

Il cinema secondo enrico ghezzi

“Paura e desiderio, cose (mai) viste” è il titolo di una raccolta di saggi cinematografici a cura del critico Enrico Ghezzi (fondatore di Fuori orario, cose (mai) viste e Blob).  Un semplice titolo a cui possiamo associare, con desiderio e paura di banalità, il primo film di Kubrick (Paura e desiderio, 1953), per ricordare l’elementare moto dell’inconscio e dell’immaginazione: il mantra freudiano “ogni paura è un desiderio”.

Eh si, perché a proposito di banalità, a sovvertire la logica e i conti che tornano, è proprio l’irriducibile inconscio. E lo sa bene Deleuze che vuole introdurre il movimento nel pensiero, senza cadere nell’astrazione come Hegel, ma fondando il pensiero di Differenza e ripetizione.

Ed è qui che arriva l’irriducibile cinema: paura e desiderio di un’immagine inafferrabile. Vogliamo vederla, ma in fondo sappiamo che non la conosceremo mai, che il segreto del suo movimento/tempo è a noi inaccessibile, che come ha detto Bonaga a Venezia78 “ci sottrae tempo, perché durante non hai tempo di vederlo”.

Caparezza, Fellini, inconscio, o Della scelta

Caparezza, Fellini, inconscio, o Della scelta

(cosa esplora “Fellini e l’ombra” di Catherine McGilvray ora al cinema)

Il documentario “Fellini e l’ombra” ci permette di riprende in mano e approfondire alcuni aspetti di Federico Fellini già accennati

“Tendere l’orecchio e il cuore a qualcosa che è quasi dimenticato e che non vorrei aver dimenticato” racconta la voce di Fellini. Ecco, ritroviamo già in questa frase la cifra del cinema di Fellini: la purezza dei personaggi di La strada o di Cabiria, la difficoltà di amare del Casanova, l’impossibile bellezza di  Sylvia, de La dolce vita, lo strano rapporto con la memoria in Amarcord e la crisi del regista di Otto 1/2. 

“I tuoi spiriti dicono sei libero, ma devi saper scegliere” dicono al protagonista di Otto 1/2. La “scelta” sembra ossessionare continuamente Fellini, anche le sue ultime due opere incompiute, il Mastorna e Tulum esasperano ancora di più la difficoltà “concludere”, che troviamo in ogni suo lavoro. Tanto è vero che scrive al produttore Dino: ” questa storia mi sembra una serie di entrate in cui non riesco a entrare”.

Come scegliere? Scegliere significa sciogliere un dubbio, de-cidere (tagliare), dare un significato. Caparezza nel suo ultimo disco dice di ispirarsi al Mastorna e al Guido sopra citati. Nel brano La scelta racconta la storia di due personaggi, che compiono scelte opposte, ma entrambe valide in quanto meditate e accettate. In fondo il momento della scelta è solo un’illusione.”Saresti capace di scegliere una cosa sola e farla diventare la tua ragione di vita?” chiede Guido a Claudia. Ebbene la cosa è in realtà impossibile.

Quando scegliamo infatti escludiamo e paradossalmente impediamo il presentarsi del dubbio (infatti lo sciogliamo) e quindi impediamo il presentarsi della necessità della scelta che però ci ha portato a compierla! Bel paradosso, ma è così che si costituisce il Tempo secondo Bergson e Deleuze. In Differenza e ripetizione lo scrive chiaramente: “il presente costituisce il tempo, ma è il passato puro a garantire il passare del presente”.

Ed è lo stesso Deleuze, nel capitolo sulle immagini-tempo cristallo, a esprimersi come farà Fellini nella lettera a Dino: “Il problema non è più sapere ciò che esce, e come, dal cristallo, ma al contrario, come entrarvi. Si riconosce il metodo che via via apparterrà a Fellini”.  E si perché è un “cominciamento”, “quello che si vede nel cristallo è lo zampillio della vita, il tempo nel proprio sdoppiamento”, e in Fellini assistiamo a germi di cristallo. “Il presente che passa e va verso la morte, il passato che si conserva e trattiene il germe di vita, non cessano d’interferire, di intersecarsi”

Ma cos’è l’inconscio? (il concetto di “passato puro”)

Se ne è sentito molto parlare con Freud, ma cos’è esattamente l’inconscio? Conosciuto volgarmente come “sub-conscio” si utilizza il termine per indicare tutto ciò che psicologicamente non controlliamo. Ma che cosa in fondo controlliamo quando pensiamo? La vera “scoperta” è che non c’è un momento “chiaro e distinto” (alla Cartesio) in cui noi diciamo “io sono questa coscienza”, non ci ricordiamo quando abbiamo cominciato ad essere coscienti, così come non riusciamo a fermare il nostro pensare. Per questo la psicoanalisi indaga il nostro “stare nelle parole”, il nostro “parlare ciò da cui si è parlati” direbbe Lacan.

In verità siamo sempre inconscio, nel senso che non riusciamo a pensare ciò che ci pensa.

Il primo a mettere in questione le idee chiare e distinte di Cartesio non fu Freud, ma forse Leibniz, quando ci racconta della strana esperienza acustica nei pressi di una cascata: cogliamo solo inconsciamente ogni goccia d’acqua perché ciò che sentiamo è un rumore chiaro e confuso, piuttosto che distinto, e ciò che è distinto ci rimane oscuro.

Bergson chiama questo sfondo “inquieto” (inteso come chiaro-confuso e distinto-oscuro) del pensiero “durata”, o “passato puro”. Alla base della Memoria non c’è quindi un’idea chiara e distinta, ma un “immemoriale”. E’ ciò che, secondo Bergson, fa confondere continuamente la percezione con il ricordo, rendendo impossibile distinguere dove inizi esattamente l’una e dove l’altra. E’ anche ciò che rende inafferrabile l’istante, costituendo il paradosso del presente, come sdoppiato in un getto che si slancia da una parte nel passato e dall’altra nel futuro.

Per questo Deleuze si occupa così tanto della “differenza”, e che se vogliamo parlare correttamente di “ripetizione, ovvero di qualche cosa che rimane e che torna, occorre pensarla a partire dalla “differenza”.  Ed è per questo che non si può vedere in maniera diretta il Tempo in cui avviene l’immagine-movimento del cinema classico. Vediamo delle immagini scorrere secondo narrazioni ma non possiamo vedere ciò che le fa scorrere. Solo dopo puoi cercare un po’ di dare un resoconto di quello che hai visto, ma durante non puoi dire veramente quel movimento autonomo che ti si mostra davanti. In questo senso Jean Louis Schefer parlava del Cinema come di un Mostro che fa un’esperienza diretta di Tempo a noi inaccessibile.

Solo con il cinema cosidetto moderno dell’immagine-tempo possiamo vedere il Tempo direttamente, ma perché l’immagine si presenta ambigua, instabile, già caratterizzata da quell’incomponibilità che il montaggio classico mostrava indirettamente. In sintesi il Tempo è “inquietudine”, “paradosso” e l’instancabile lavoro della macchina Cinema, consapevole della relatività di ogni punto fisso,  non fa che parlarlo, esprimerlo. L’istante, che inafferrabile costituisce il nostro vivere, al Cinema è già dato (o meglio “durato”).  Per questo dialogare con il Cinema significa dialogare con noi, con quella parte di noi sfuggente, sempre sullo sfondo, eppure così “presente”.

 

 

“Ci hai mai fatto caso che quando sogni ti ci ritrovi in mezzo ma non ti ricordi mai l’inizio?” Inception, Cristopher Nolan.

The Dreamers, “un po’ di possibile sennò soffoco”

The Dreamers, una scena del film

Immagine-movimento: cambiamenti di durata rapportati a dei centri senso-motori (percezione e azione, sensazione e movimento).

Immagine-affezione: occupa lo spazio di esitazione tra la percezione e l’azione. Solitamente il volto in primo piano, ma può essere qualunque cosa esprima una tendenza motrice su una lastra ricettiva immobilizzata. Unione dell’espressione e di ciò che la esprime, ma non si lascia esaurire da essa.

L’inconscio “ne regrette rien”

“The dreamers” è un film del 2003 diretto da Bernardo Bertolucci, che raccontando la storia di tre studenti durante il Maggio parigino del 68 cerca di ripercorrere le atmosfere di quel fermento politico, culturale e in particolare cinematografico.

Bertolucci si serve dello stretto indispensabile per comporre la storia, un giovane americano in visita-studio a Parigi fa la conoscenza di due fratelli francesi, condividendo con loro un’intera casa per un mese, durante le vacanze dei genitori. I due fratelli condividono un rapporto morboso, ancora infantile, mentre il giovane americano è molto legato alla madre con visioni ingenue e idealizzate sul mondo che lo circonda (lo capiamo da come scrive le lettere alla madre idealizzando gli amici secondo le aspettative materne). Il regista ci fa capire subito la caratteristiche dei personaggi e il loro contesto di relazioni, i centri del movimento sono chiari (immagine-movimento). Nonostante ci risulti facile capire la vicenda, provando quasi tenerezza per i giovani in crescita, la chiusura delle quattro mura e la sospensione del mondo circostante sembra avvicinare anche noi alla con-fusione tra sogno e realtà con cui i ragazzi giocano fino a rischiare tutto. Siamo in una situazione simile a certi film di Bergman, in cui i personaggi vengono indagati fino allo smarrimento esistenziale. (Probabilmente la rivista con in copertina “Persona” di Bergman, che compare sullo sfondo in una scena, non è così casuale). Bergman era solito portare l’immagine-affezione fino al proprio limite esprimendo l’essenza della “paura del vuoto”, regalandoci fotografie indimenticabili delle inquietudini umane. L’immagine-affezione veniva così disfatta al suo interno, espressa da un’espressione del vuoto in grado di pietrificarla.

Bertolucci capisce le paure dei protagonisti, smarriti in un mondo che ha perso le coordinate (addirittura i genitori sembrano dei bambini mai cresciuti, il padre che tocca sensualmente la figlia e la madre che si fa bella con Matthew).

Nonostante i tre giovani vivano ancora in un mondo immaturo di illusioni  (“lo schermo forse schermava noi dal mondo” dice Matthew) il mondo attorno a loro non sembra meno contradditorio e illuso. Il padre di Thèo vive con un idealizzazione smisurata di se stesso e con un altrettanto rapporto morboso con la figlia, quasi contesa con il figlio-rivale. La madre stessa sembra voler sedurre Matthew da come lo guarda.  Qualsiasi confine-regola viene a mancare, così come nelle strade parigine in subbuglio.

L’immagine-affezione e il suo limite in Bertolucci 

Viene da chiedersi: chi è più fuori dal mondo? il mondo fuori di sé o chi rimane dentro di sé nelle proprie illusioni? Il padre di Théo urla al figlio: “non puoi criticare il mondo standotene fuori a guardarlo” e il figlio controbatte: “proprio te parli che hai scritto una petizione è una poesia, e una poesia una petizione, e non hai firmato la nostra petizione!” Ma Théo non è in grado di controbattere veramente al padre, dato che vive mantenuto dai suoi tanti soldi…per non parlare degli ideali non violenti professati e poi traditi durante la rivolta…la sfida della crescita è ridimensionarsi trovando un proprio posto nel mondo, ma la difficoltà è quando il mondo non si presenta come un posto, ma come u-topia, incerto, dubbio. Ma il finale ci insegna che solo accettando se stessi come u-topia si può trovare il proprio mondo, che altro non è che un mondo tra i mondi. Il superamento del narcisismo è la consapevolezza che anche il nostro corpo è un Altro, o come scriveva Focault, che è l’utopia delle utopie, l’origine delle utopie.

I ragazzi “giocano lo smarrimento”, simulano scene dei loro film preferiti estrapolandole dai loro mondi e cercano di fissarsi nelle loro abitudini, mistificandole, per non affrontare lo smarrimento. La telecamera segue il loro gioco con complicità, portando l’immagine-movimento al suo confine, in un’immagine-affezione del desiderio. (in controtendenza a Bergman che la rapportava alla paura del vuoto). L’immagine-affezione del desiderio invece di disfare il volto nel suo limite con il vuoto (Bergman) lo smarrisce nelle ambiguità che lo avvolgono. Anche nella scena finale il tentato suicidio di Isabelle non può compiersi, perché avvolto (proprio come si avvolge Mouchette) da un’ambiguità rimasta in sospeso…

La domanda disperata finale sembra urlare: è questa la voglia di morire? uguale alla voglia di vivere un momento per sempre? viene rimessa in questione dalla folla urlante “dans la rue! dans la rue!” Allora è questa la voglia di vivere un momento per sempre? Infilarsi in una folla con le proprie urla? Il gusto di contraddirsi e perdersi? L’inconscio è per-verso ricordava Deleuze sempre a proposito della carica eversiva del 68…ecco forse il vero significato della “pietra rotolante” o del rullino cinematografico della nouvelle vague…non si può fermare l’inconscio perché come diceva Lacan esso non conosce la parola “no”… Forse anche i genitori avrebbero bisogno di scendere in piazza e urlare per mettere in scena catarchicamente le proprie contraddizioni…

Anche il gesto con cui Isabelle reagisce al “trauma di Narciso” è catarchico: cerca di suicidarsi insieme ai ragazzi con la canna del gas, e proprio mentre mette in atto il piano si alternano le immagini del finale di “Mouchette” in cui la giovane ragazza, dopo una vita di fatiche e traumi si getta nel fiume. Isabelle srotola la canne del gas con la stessa paradossale amorevolezza materna con cui la ragazza si “srotola” nel fiume. Bresson amava riprendere gli eventi mostrandone solo l’essenziale e trasformandoli in “puri affetti”: c’è un fil rouge che lega il cinema di Bresson alle carellate di Bertolucci, non a caso entrambi amanti della “mano”. Bresson fondava il proprio cinema sulla mano, e sulla sua capacità di “toccare” senza vedere. Bertolucci al contrario sembra voler vedere senza toccare, in una paradossale visione “intangibile”, “inafferrabile”, “invisibile”. Il paradosso è questo: se noi potessimo vedere senza “sentirci” e sentire, perderemmo il “senso” della vista e sarebbe tutto omogeneo come al buio. Ma l’essere nel nostro corpo non gioca proprio con questo limite?

Il 68 e la crisi dell’immagine-movimento 

Non è un caso che il filosofo Gilles Deleuze, di cui si parla tanto nelle nostre “Frontiere”, abbia maturato la propria filosofia proprio in quegli anni. Bertolucci, però, non si riduce a ripetere quello che già il cinema del 68 faceva: mostrare lo smarrimento attraverso una crisi dell’immagine-movimento e “percezioni ottiche e sonore pure”, in cui i personaggi, perduto il legame con il mondo, lo ritrovava no in una “credenza” (accordi tra le inquadrature reinventati etc…) che restituiva loro il legame perduto. Godard a proposito di Bande a part scriveva: “è il mondo che vive una brutta sceneggiatura, non loro”. Bertolucci ripercorre quel periodo a partire dai nostri anni, in cui la credenza nel mondo è stata ricomposta e il 68 sembra ormai una parentesi chiusa.

A restituirci le atmosfere del periodo è la “tensione” del desiderio, che per esprimersi ha bisogno della domanda e dello smarrimento.

Per questo il finale in sospeso è così importante: a cosa si è affacciato quel mondo in rivolta? Una volta scoperto di essere padroni dei nostri sogni, ci sentiamo soli, ma al contempo più liberi, ma ora?

Titoli di coda: “Non…je ne regrette rien…”