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Archivia Ottobre 4, 2021

Ma cos’è l’inconscio? (il concetto di “passato puro”)

Se ne è sentito molto parlare con Freud, ma cos’è esattamente l’inconscio? Conosciuto volgarmente come “sub-conscio” si utilizza il termine per indicare tutto ciò che psicologicamente non controlliamo. Ma che cosa in fondo controlliamo quando pensiamo? La vera “scoperta” è che non c’è un momento “chiaro e distinto” (alla Cartesio) in cui noi diciamo “io sono questa coscienza”, non ci ricordiamo quando abbiamo cominciato ad essere coscienti, così come non riusciamo a fermare il nostro pensare. Per questo la psicoanalisi indaga il nostro “stare nelle parole”, il nostro “parlare ciò da cui si è parlati” direbbe Lacan.

In verità siamo sempre inconscio, nel senso che non riusciamo a pensare ciò che ci pensa.

Il primo a mettere in questione le idee chiare e distinte di Cartesio non fu Freud, ma forse Leibniz, quando ci racconta della strana esperienza acustica nei pressi di una cascata: cogliamo solo inconsciamente ogni goccia d’acqua perché ciò che sentiamo è un rumore chiaro e confuso, piuttosto che distinto, e ciò che è distinto ci rimane oscuro.

Bergson chiama questo sfondo “inquieto” (inteso come chiaro-confuso e distinto-oscuro) del pensiero “durata”, o “passato puro”. Alla base della Memoria non c’è quindi un’idea chiara e distinta, ma un “immemoriale”. E’ ciò che, secondo Bergson, fa confondere continuamente la percezione con il ricordo, rendendo impossibile distinguere dove inizi esattamente l’una e dove l’altra. E’ anche ciò che rende inafferrabile l’istante, costituendo il paradosso del presente, come sdoppiato in un getto che si slancia da una parte nel passato e dall’altra nel futuro.

Per questo Deleuze si occupa così tanto della “differenza”, e che se vogliamo parlare correttamente di “ripetizione, ovvero di qualche cosa che rimane e che torna, occorre pensarla a partire dalla “differenza”.  Ed è per questo che non si può vedere in maniera diretta il Tempo in cui avviene l’immagine-movimento del cinema classico. Vediamo delle immagini scorrere secondo narrazioni ma non possiamo vedere ciò che le fa scorrere. Solo dopo puoi cercare un po’ di dare un resoconto di quello che hai visto, ma durante non puoi dire veramente quel movimento autonomo che ti si mostra davanti. In questo senso Jean Louis Schefer parlava del Cinema come di un Mostro che fa un’esperienza diretta di Tempo a noi inaccessibile.

Solo con il cinema cosidetto moderno dell’immagine-tempo possiamo vedere il Tempo direttamente, ma perché l’immagine si presenta ambigua, instabile, già caratterizzata da quell’incomponibilità che il montaggio classico mostrava indirettamente. In sintesi il Tempo è “inquietudine”, “paradosso” e l’instancabile lavoro della macchina Cinema, consapevole della relatività di ogni punto fisso,  non fa che parlarlo, esprimerlo. L’istante, che inafferrabile costituisce il nostro vivere, al Cinema è già dato (o meglio “durato”).  Per questo dialogare con il Cinema significa dialogare con noi, con quella parte di noi sfuggente, sempre sullo sfondo, eppure così “presente”.

 

 

“Ci hai mai fatto caso che quando sogni ti ci ritrovi in mezzo ma non ti ricordi mai l’inizio?” Inception, Cristopher Nolan.

Villeneuve e il cinema portato al proprio limite

Denis Villeneuve e il rapporto con l’immagine

Siamo abituati a descrivere ogni cosa che vediamo così tanto da pensare che immagine e parola siano la stessa cosa, ma con Bergson abbiamo imparato che l’immagine viene prima della parola. Prima di dire cosa stiamo guardando la stiamo già guardando. E’ il paradosso della percezione, che mentre si forma si confonde con il ricordo.  Villeneuve nei suoi film sembra aver intuito questa potenzialità propria dell’immagine.

La percezione de-spostata

Pensiamo ad Arrival e al recente Dune, due kolossal fantascientifici tratti da due intriganti romanzi: “quando” avviene esattamente quello che viene narrato, se spazio e tempo come li conosciamo vengono messi in discussione? Da che punto è vista la storia?

Ma pensiamo anche a Prisoners, un giallo-crime che ci insinua continuamente una curiosità incredibile verso la scoperta dei colpevoli, salvo farci capire, una volta scoperti, che questa curiosità non era tanto per i colpevoli ma per tutto quello a cui assistiamo, che il film stesso era “curiosità” verso un male senza (as)soluzione.  La preghiera iniziale, e gli ossessivi sguardi nel vuoto/vicoli ciechi  dei personaggi, non fanno che “bucare” in una situazione che è già degradata, proprio come l’alcool in cui si affoga il protagonista. In Sicario apre con l’orrenda e agghiacciante scoperta dei corpi nel muro, per poi virare l’horror in un action/spy movie vivace e stimolante, salvo concludersi in un desolante e cinico finale. Per farci ammettere che era meglio l’orrore della scena iniziale, perché almeno “innocente” nella sua anonima, per quanto inconcepibile, ripugnanza.

C’è sempre un punto cieco, di lato, che consente di percepire l’intero del film, la sua narrazione, i suoi cambiamenti…Sono i silenzi, le inquadrature anonime (senza sguardo di qualcuno, depersonalizzate).

La cinepresa di Villeneuve è ” inquadratura spostata” fin dall’inizio, in una strana messa a fuoco, che è al contempo sfocatura, una profondità di campo che è al contempo “sospensione del giudizio”. All’inizio di Prisoners assistiamo al protagonista disperato alla ricerca della figlia rapita, ma al contempo assistiamo all’incredulità di questo improvviso avvenimento: la cinepresa si muove quasi fosse una ripresa amatoriale (ma non lo è), rimane ferma su angoli della casa come una “natura morta” qualunque, mentre si svolge un dramma (atipico per un film drammatico che dovrebbe centrarsi su primi piani disperati e dettagli angoscianti). C’è un non-detto in quella scena che altro non è che l’avvenimento in corso. Ecco perché Villeneuve ha abbracciato con disinvoltura la fantascienza…gli alieni che parlano tramite il tempo cosa sono se non questi “buchi neri” del “vissuto”, che come tale è espressione di eventi ma al contempo l’evento stesso, perché inseparabile da esso?