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Cinematocrazia / Donà e le frontiere

Cinematocrazia / Donà e le frontiere

Era da un po’ che alle “frontiere” volevamo trattare di questo libro. L’autore Massimo Donà, filosofo allievo di Severino, decide di parlare ancora di cinema (dopo il volume “Abitare la soglia”) e prendendo in considerazione la filosofia bergsoniana-deleuziana.

“C’è qualcosa in Deleuze che mi attrae proprio in ragione della distanza che mi separa da esso”, dichiara nelle prime pagine. Formatosi sui ben più complessi volumi di idealismo tedesco, Hegel e Severino, il filosofo ammette una difficoltà e uno stimolo inedito, e non tanto per una complessità concettuale, quanto per la diversa provenienza filosofica del filosofo francese. Insomma, distanza, vicinanza, non si capisce bene dove si trovi Massimo Donà, se non sempre su qualche “soglia”, parola che a lui piace spesso evocare.

E non è la prima volta che lo si sente parlare in questi termini, anche in rapporto al suo maestro ha spesso dichiarato di avere ereditato una profonda vocazione alla “radicalità” che lo porta a prendere altre strade in virtù dell’eredità stessa. La solita storia dell’allievo che supera il maestro, ma occorre entrare più nel merito del suo discorso per coglierne la portata.

E’ Deleuze stesso a segnalare come la filosofia “operi un taglio nuovo tra le cose, riunendo in uno stesso concetto cose lontane e allontanando cose vicine”, la speculazione filosofica si nutre di “radicalità”, di incontri/scontri tra concetti lontani costretti a rilanciare ulteriori concetti e assoluti. Insomma, già dichiarando il proprio “modus philosophandi”, Donà, quasi senza accorgersi, si interfaccia con l’immanenza deleuziana.

Donà, in compagnia del pensiero deleuziano, si interroga niente di meno che sullo statuto dell’arte cinematografica in relazione alla filosofia. Come se il senso ultimo della filosofia convergesse con la missione artistica del cinema. Deleuze scriveva che il filosofo opera per concetti su un piano di immanenza, mentre il regista per rapporti di tempo/durata, ma allora cosa significa pensare/vedere (therein)/sentire?

Il cinema per Donà sembra addirittura realizzare quella vocazione propria della filosofia ma sempre difficilmente “toccata” con mano, a causa dei limiti della logica, quella vocazione a dire la verità assoluta che come tale non potrà mai confondersi con le determinatezze, le sole con le quali abbiamo continuamente a che fare. Quella dissimulazione (o sospensione di giudizio, epoché) necessaria al coglimento dell’assoluto.

A tal proposito il filosofo cita il geniale critico deleuziano Enrico Ghezzi: “senza che nulla cambi nella vita reale”.

Giudizio è scelta tra determinatezze. Sospinti dal senso pratico (giustamente, qui non lo si vuol negare ovviamente) siamo convinti di avere il controllo assoluto sul senso della nostra vita. In questo senso confondiamo  continuamente la prassi con il theorein (contemplazione, filosofia). Ma attenzione, non si tratta di relativismo, la filosofia vuole arricchire la realtà, non sminuirla.

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