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Categoria Fantascienza / Cyberpunk

Immaginare l’inimmaginabile: la Fantascienza al Cinema

La fecondità del genere

Ci si concentra molto spesso sulla capacità della narrativa fantascientifica di prevedere o meno il futuro, o di come attraverso la propria libertà di manipolare spazi e tempi sappia intercettare cambiamenti sociali, tecnologici o culturali, prima che questi avvengano. E’ sempre molto interessante, perché ci permette di capire come la fantasia spesso ci aiuti a ragionare sul tempo presente e sulle nostre aspettative verso il futuro, forse ancora di più di altre opere, in quanto capace di muoversi più agevolmente tra diversi “mondi”: un autore può immaginare una storia ambientata nell’antico Egitto e al contempo in un lontano pianeta nel futuro.

L’immagine-tempo del cinema di Fantascienza

In tutto ciò però si trascura la potenzialità maggiore della fantascienza, la vera radice dei più grandi successi del “genere”: il rapporto con ciò che non riesce a immaginare. Pensiamoci bene: cosa accomuna 2001, Blade Runner, Dune (romanzo e film), Matrix, Arrival e simili se non l’audacia di mostrare spazi e tempi a noi inaccessibili, attraverso giochi di suggestioni letterarie o visive? Cos’è il dialogo interiore di Paul Atreides e la “Voce” delle Bene Gesserit se non un formulario poetico, a noi accessibile solo per via suggestiva? Cosa sono i personaggi “simbolici” di Matrix, capaci addirittura di ridefinirsi durante il film (l’agente Smith da nemico esterno a parte essenziale di Neo)? O le immagini di 2001, radicalmente lacunose e al contempo fluide?

Kubrick a proposito della sua gioventù come fotografo raccontava di come attraverso la fotografia andasse a mostrare quella capacità di guardarci insita nel quotidiano inosservato, quel penetrante sguardo insito nel punto cieco (Eyes wide shut). Pensiamo allo sguardo di Hal in 2001, o allo sguardo di Danny in Shining.  (a tal proposito ci sono diversi libri interessanti sul rapporto di Kubrick con l’invisibile)

La fantascienza capisce che i concetti limiti della nostra conoscenza (relatività spazio-temporale, linguaggio, rapporto corpo umano, animale-macchina) son tutti pretesti per impiegare l’immagine cinematografica nella sua capacità di mostrare l’invisibile, ovvero lo scorrere inafferrabile, la “durata” bergsoniana. Sta qui la stessa forza concettuale di Matrix, capace di farsi anche portavoce di quello nuovo sguardo necessario al nuovo paesaggio proposto dalla scienza e dal cinema: la realtà come flusso. La stessa consapevolezza e forza di volontà di Neo si dimostra inevitabile e necessaria secondo una logica immanente, perché aldilà del conflitto tra forze, nessun scopo uni-versale sembra prevalere.  Lo stesso quarto capitolo in questi giorni in sala, a distanza di 20 anni dalla trilogia, riesce ad essere fedele e al contempo innovativo, ribadendo tale flusso concettuale: addirittura senza fare troppi spoiler, vedremo delle macchine allearsi con gli umani, e i ruoli dei protagonisti ribaltarsi di nuovo (eletti, illuminati, nemici, amici etc…).

L’immagine-tempo del cinema contemporaneo 

L’intuizione filosofica di Matrix è una riproposizione di quanto Nietzsche aveva già suggerito: è la nostra “devozione” alla realtà a farcela assolutizzare. E Massimo Donà, nel suo recente Cinematocrazia, rileva molto bene come Matrix sembri ripercorrere molti passaggi filosofici cruciali: la caverna di Platone, il “cogito ergo sum” cartesiano…

In Matrix l’impianto filosofico, così come abbiamo detto per gli altri film di fantascienza, è comunque una scusa, per raccontare una storia di emancipazione, in parte anche autobiografica, essendo le registe trans gender. A tal proposito è interessante tutta la filmografia delle Wachowsky (Cloud Atlas, Jupiter, la serie Sense8, ma anche il primo Bound…): sembra che nel raccontare la “specularità” delle relazioni, l’accettazione della solitudine e la ricerca di forza d’animo in un mondo caotico, esse elaborino delle immagini capaci di giocare moltissimo con il “punto cieco” alla base di ogni immagine. Come se i generi “femminile” e “maschile” (e altri binomi) fossero troppo ristretti per mostrare la dinamica delle relazioni e delle personalità dei loro personaggi…essi sono piuttosto orizzonti di un limite, che non è il loro, ma di chi ha disegnato il mondo sopra di loro (il demiurgo del Truman Show di Peter Weir). Che poi siamo sempre noi a disegnarci il mondo e non ci sia nessuno sopra di noi (nessun potere con strani fini cari fan di Matrix complottisti) poco importa, perché anche “noi” e “loro” è un binomio limitato. E’ semmai un “loro” sartriano, la consapevolezza che “l’inferno sono gli altri”, qualsiasi sguardo “alienante” e oggettivante.

Se l’immagine-tempo della nouvelle vague e del neorealismo (cinema moderno), giocava con lo smarrimento del dopoguerra (personaggi smarriti in contesti anonimi), l’immagine-tempo di questo cinema fantascientifico gioca con la solitudine del nuovo millennio (personaggi ingabbiati e contesti alienanti).

Una scena di “Arrival”, film in cui una traduttrice è chiamata a tradurre una comunicazione extraterrestre che fonda il proprio linguaggio sul viaggio nel tempo

 

Villeneuve e il cinema portato al proprio limite

Denis Villeneuve e il rapporto con l’immagine

Siamo abituati a descrivere ogni cosa che vediamo così tanto da pensare che immagine e parola siano la stessa cosa, ma con Bergson abbiamo imparato che l’immagine viene prima della parola. Prima di dire cosa stiamo guardando la stiamo già guardando. E’ il paradosso della percezione, che mentre si forma si confonde con il ricordo.  Villeneuve nei suoi film sembra aver intuito questa potenzialità propria dell’immagine.

L’immagine-tempo di Villeneuve: la percezione in formazione, il nuovo da percepire

Pensiamo ad Arrival e al recente Dune, due kolossal fantascientifici tratti da due intriganti romanzi: “quando” avviene esattamente quello che viene narrato, se spazio e tempo come li conosciamo vengono messi in discussione? Da che punto è vista la storia?

Ma pensiamo anche a Prisoners, un giallo-crime che ci insinua continuamente una curiosità incredibile verso la scoperta dei colpevoli, salvo farci capire, una volta scoperti, che questa curiosità non era tanto per i colpevoli ma per tutto quello a cui assistiamo, che il film stesso era “curiosità” verso un male senza (as)soluzione.  La preghiera iniziale, e gli ossessivi sguardi nel vuoto/vicoli ciechi  dei personaggi, non fanno che “bucare” in una situazione che è già degradata, proprio come l’alcool in cui si affoga il protagonista. In Sicario apre con l’orrenda e agghiacciante scoperta dei corpi nel muro, per poi virare l’horror in un action/spy movie vivace e stimolante, salvo concludersi in un desolante e cinico finale. Per farci ammettere che era meglio l’orrore della scena iniziale, perché almeno “innocente” nella sua anonima, per quanto inconcepibile, ripugnanza.

La cinepresa di Villeneuve è ” inquadratura spostata” fin dall’inizio, in una strana messa a fuoco, che è al contempo sfocatura, una profondità di campo che è al contempo “sospensione del giudizio”. All’inizio di Prisoners assistiamo al protagonista disperato alla ricerca della figlia rapita, ma al contempo assistiamo all’incredulità di questo improvviso avvenimento: la cinepresa si muove quasi fosse una ripresa amatoriale (ma non lo è), rimane ferma su angoli della casa come una “natura morta” qualunque, mentre si svolge un dramma (atipico per un film drammatico che dovrebbe centrarsi su primi piani disperati e dettagli angoscianti).

 

Nella foto una scena di Dune di Denis Villeneuve, Paul Atreides durante una visione del futuro

Con Dune Villeneuve scrive un manifesto del proprio stile

L’universo narrativo-simbolico di Dune

“Dune” non è mai stato facile da girare. Il romanzo di Frank Herbert, capostipite della fantascienza (George Lucas si è ispirato per Star wars per fare un esempio), è ricco di parole ed espressioni suggestive, incredibilmente scorrevoli nella scrittura, rispetto ai tempi del cinema.  Il surrealista cileno Jodorowksy ci aveva già provato, coinvolgendo raffinati disegnatori come Moebius e talenti di cinema come O’ Bannon (co-autore di Dark Star e Alien), ma il costo produttivo del progetto scoraggiò Hollywood. Lynch ereditò il progetto, ma dovette scendere a molti compromessi con la produzione, fino a rimanere egli stesso deluso dalla propria opera.

Villeneuve si confronta quindi, con un universo tutt’altro che semplice, e solo con questa consapevolezza possiamo confrontarci con questo nuovo sguardo al romanzo di Herbert. Si rinfaccia spesso a Villeneuve la lentezza dei piani sequenza (un po’ come con Sorrentino) ma non si coglie il senso di questi suoi movimenti di macchina, se non si presta attenzione ai momenti in cui vengono utilizzati e al loro rapporto con il sonoro.  Con uno sguardo attento possiamo infatti cogliere che le sue sequenza più riuscite sono quelle in cui i “non detti”, o le “sospensioni” di giudizio morale o di senso narrativo, vengono compensate da inquadrature altamente espressive, accompagnate da un “sonoro” predominante rispetto al “visivo” che risulta incompleto, mancante di informazioni.

Dune nel cinema di Villeneuve

Ecco perché il romanzo di Herbert si presenta ideale per la poetica di Villeneuve.  E’ vero, Villeneuve decide di trasporre solo metà romanzo e l’intreccio narrativo si fa molto debole (sembra quasi di vedere un trailer di 2 ore), vengono tagliate molte caratterizzazioni dei personaggi rispetto al libro, e privilegiate per parti più suggestive, ma le immagini sono molto forti e incredibilmente riuscite. Inoltre, il venir meno della trama, rinforza il protagonismo delle immagini. Sempre guardando il film senza pregiudizi e lasciandoci trasportare, possiamo cogliere come ogni sequenza non è mai montata a caso ma si inserisce con precisione in un discorso non compiuto narrativamente, ma poeticamente, nel senso che non c’è mai una conclusione, ma sempre un rimando (attenzione però, un rimando non esterno, bensì interno, come in una poesia).

Gli attori sono scelti e guidati perfettamente, la musica di Hans Zimmer è calzata molto bene. Villeneuve ha saputo regalarci un’opera molto raffinata esteticamente, omaggiando al contempo il romanzo, la tradizione ad esso legata e il proprio cinema, basato come analizzato anche in un altro articolo, sulla “sospensione del giudizio” e il rimando al proprio occhio interiore.

In foto una scena di Dune, Paul Atreides mentre cammina sulla spiaggia riflettendo sul proprio futuro

Cruella – Il parere cinefilo

La verità, a me Cruella è piaciuto. Opera firmata disney, ma il suo spirito è così punk; disney, ma con sceneggiatura firmata Tony McNamara (La Favorita, per intenderci).

Le interpreti sono due villainess molto interessanti a livello di interpretazione, seppur siano ibridi: Emma Thompson è nata dalla Miranda Priestley di Meryl Streep, ed in Emma Stone, oltre a tutti i suoi personaggi precedenti, si trovano il Joker di Todd Phillips, Malefica, Harley Queen e un pizzico della Tonya Harding di Margot Robbie; un miscuglio di quei villain umanizzati più recenti.

Seppur limitato e chiuso in una scatola, la sceneggiatura non sarebbe mai potuta essere feroce e lacerante come La Favorita, dovendo comunque inserirsi nelle restrizioni di essere un prodotto disneyano.
L’atmosfera rivoluzionaria punk-rock ne fa però una favola ribelle, dark e con accenni bartoniani, con protagonista quell’anti-eroina col suo flusso di coscienza che tanto avrei voluto vedere a 15 anni.

Ora, queste cose probabilmente le avranno già dette in tanti, ma quello che per me rimane il problema più grosso – non riguardante solo Cruella ma anche il secondo Maleficent – è che in un film atto a umanizzare il cattivo e spiegare le origini del suo male, ricorrono comunque a un’antagonista che subentra come il vero cattivo: un villain classico, non umanizzato, il male puro che non ha bisogno di spiegazione.

Basti pensare al mito di Medusa, da mostro mitologico privo di umanità a vittima di un’ingiustizia da parte di Atena; una dea che, a suo modo e per i tempi che erano, veniva comunque “abbastanza umanizzata”, essendo gli dei greci rappresentazione dell’indole umana e pertanto portatori sia di bene che di male. L’atto di rivisitare e dare un origine a un cattivo, ma anche più cattivi insieme, è qualcosa che funzionava già in età classica.

Che cosa stiamo facendo, dunque? Umanizziamo e spieghiamo un cattivo solo per crearne un altro non dissimile da ciò che erano in origine?
In questo caso specifico è la Baronessa a prendere il posto di Crudelia. Diventando la vera cattiva della storia, senza un briciolo di umanità, di incertezza, di colore in quella personalità diabolica.

Me lo vado a rivedere lo stesso.

Crudelia e il significato di “live action”

Live action: un genere borderline

“Live action”, letteralmente azione dal vivo, è un termine usato per indicare quei film basati su storie per bambini o ragazzi e distinguerli dalle eventuali versioni animate o video ludiche. L’evoluzione tecnologica ha portato anche alla realizzazione di prodotti misti (sia con riprese dal vero, che animati), o a versione computerizzate basate su riprese reali delle location (come nel caso del remake Disney del Re Leone. La specializzazione e l’avanguardia dei programmi di editing e le nuove tecniche di ripresa stanno avvicinando sempre di più la ripresa dal vero alla simulazione al computer, rendendo le categorie più mobili. L’assottigliamento dei confini ha stimolato gli stessi registi cinematografici a mettersi in gioco nell’animazione (Tim Burton, Steven Spielberg, per citare alcuni esempi).

Nel caso di Cruella la definizione di genere si fa borderline per più di un motivo. Il film si richiama a uno dei classici d’animazione più teneri di tutti i tempi: La carica dei 101, ma decide di raccontare la versione dell’antagonista, approfondendo il suo passato e delineandone una complessità psicologica. Già qui ci allontaniamo dalla “macchietta” della versione animata, e pure da quella del live action 96 con Glenn Close (La carica dei 101, questa volta la magia è vera).  Ciò nonostante, il tono simpatico scelto per affrontare le dinamiche evolutive del personaggio non appesantisce la storia e la rende accessibile anche a un pubblico giovane. Infatti oltre che “live action” il film è stato definito “crime comedy”. È molto difficile capire se si tratta di un prodotto più per adulti o per bambini, ma forse sarebbe meglio chiedersi cosa può dare a uno e cosa all’altro. Inoltre il film, se da un lato alterna atmosfere fantastiche (con tinture gotiche alla Burton) a sequenze da cinema muto, privilegia molto la personalità dei due personaggi interpretati da Stone e Thompson (lo sceneggiatore è lo stesso de La favorita, altro film tutto al femminile).

La narrazione

Cominciando in medias res Cruella ci racconta la sua storia fin dal principio, da quando era una bambina e si chiamava Estella (nome che manterrà anche quando si farà chiamare Cruella). E’ la madre a ricordarle continuamente di lasciar trasparire il lato Estella. Fin da subito capiamo la fragilità del binomio (il contesto complicato e l’atteggiamento iper protettivo della madre). A un certo punto l’inevitabile: Cruella e sua madre capiscono che deve seguire la strada della moda, ma è proprio mentre la madre cerca dei soldi in prestito per il viaggio che avviene un fatale incidente per cui cade da una scogliera.  Cruella assiste impotente ma timorosa di aver in parte contribuito. L’intero film si baserà su questo episodio, in quanto rivelatore anche della storia passata di Cruella.

D’ora in avanti dovrà farcela da sola e il binomio Estella-Cruella diventerá sempre più intenso. Iconiche sono le scene alla fontana in cui Estella-Cruella parla con la propria madre.

Estella a Londra conosce i vagabondi ladruncoli Orazio e Gaspare e vive con loro una vita nell’ombra. Un giorno però la Baronessa, una geniale ma arrogante stilista di moda, riconosce il suo talento e la assume nel proprio impero. Comincia il percorso di Estella-Cruella verso la conoscenza del proprio fatale destino. Estella emerge sempre di più ottenendo la stima della Baronessa, la quale però mantiene sempre la propria supremazia, anche quando è sempre di più il lavoro di Estella a  farle ottenere successo. Ciò nonostante Estella rimane servizievole, venendo pure schernita per eccesso di umiltà. Ma non è nulla in confronto a quello che scoprirà a proposito della spietata Baronessa, che diventerà la sua vera e propria nemesi e fautrice di Cruella. Non solo nel presente, ma anche nel passato.  Scoprirete perché, qui ci limitiamo ad indicare l’interessante caratterizzazione dei due personaggi.

Se pensiamo alla baronessa  e a Cruella, possiamo vedere due modalità diverse di interagire con il proprio lato oscuro. La baronessa commette crimini per l’angoscia di essere messa all’ombra dagli altri, Cruella sempre per reazione, e non solo, ogni suo atto è sempre accompagnato da creatività. Pensiamo alla bellissima scena in cui sorprende la baronessa con una versione del proprio vestito costituita da insetti, che poi prendono il volo, o a quella con il camion della spazzatura coperto di pellicce. Avrebbe avuto il coraggio la baronessa di fare una cosa del genere? No, infatti annulla la sfilata dopo lo scherzo di Cruella, lasciandole rubare la scena.

Cruella e la Baronessa si scontrano prima di scoprire la vera radice del loro conflitto, ma sarà proprio la scoperta della verità a far abbandonare l’illusione Estella e ad accettare Cruella, non più come alternativa, ma come unicum. Paradosso: superare l’illusorio dualismo per abbracciare il bianco e nero di Cruella, ma vissuto come unicum. Ma ha accettato davvero o si è alienata?

Un sequel di-fferente e l’inesauribile “macchia”

In molti hanno protestato per il tradimento della trama originale ma siamo sicuri che un ennesimo remake avrebbe reso davvero giustizia alla carica dei 101? Non è forse il destino delle grandi opere il desiderio di sequel e al contempo il la necessità di proteggerne l’unicità?

Se c’era una magia nel film d’animazione Disney era proprio l’espressività, irripetibile dalle moderne tecnologie computerizzate, di ogni personaggio, ma diciamolo pure, di ogni scena. L’idea forte del film era quella di mostrare dei cani normali nelle relazioni con gli esseri umani, ma nei momenti in cui comunicano tra di loro farli parlare, coinvolgendo lo spettatore.  Ed è proprio il concetto estetico di macchia e la sua caratteristica di “confine”, “frontiera”, a fungere da chiave di volta.  Non è un caso che Estella indossi il colore rosso (capelli e vestito), stesso colore dei capelli della madre, e sia con il fuoco che si presenta alla Baronessa per la prima volta come Cruella. Così come nel cartoon è la capacità di giocare con il “confine” uomo-animale a reggere l’avventura e ad educare i bambini, in Crudelia è la capacità di reggere il confine tra le proprie paure e i propri desideri ad affascinare giovani e adulti.

La scommessa di Cruella è di portare al cinema la stessa originalità che il cartoon ebbe nel mondo dell’animazione, e pur con qualche compiacimento di troppo, ci riesce.

Un’immagine-movimento particolare: l’immagine-affezione

L’immagine-affezione è ciò che occupa lo spazio di esitazione nel processo senso-motorio (tra la sensazione e il movimento). Per questo si avvicina così bene all’immagine-tempo, che è immagine diretta della durata, non più mediata dal movimento. Pensate a questa bellissima inquadratura (in copertina all’articolo) di Crudelia durante la notte che apre gli occhi e ha un’idea, non sembra proprio un orologio a mezzanotte? Non spoileriamo la scena, ma diciamo solo che è il momento maggiore di climax in cui affiora la sua nuova personalità.

L’ambivalenza è il tema forte di Cruella, il bianco e nero dei capelli, la doppia personalità Estella-Cruella, la stessa voce altalenante, l’immagine ideale di sé VS quella vera, l’ambizione verso il proprio ignoto futuro e al contempo il peso di un passato irrisolto, che coincideranno sempre di più. Pensate a quanta ambivalenza si muova nel momento in cui la Baronessa da simbolo delle proprie ambizioni temuta e ammirata, diventa la sua stessa nemesi.

Un’altra caratteristica particolare dell’immagine-affezione di Crudelia è il volto della Stone, un volto “trasparente” i cui tratti riescono a stare fermi e al contempo sparire (gli occhi grandi, il naso minuto ma scultoreo, la bocca fine ma espressiva…). Deleuze distingueva due tipi di volto nell’immagine-affezione: il volto intensivo (tratti di volteità che sfuggono ai contorni per esprimere intenzioni) e volto riflettente (prevalenza del contorno e riflessione di ciò che agisce dall’esterno). La Stone sembra unire entrambi.

E’ il motivo per cui l’immagine-affezione diventa immagine-tempo nel segno dell’ambivalenza: a un certo punto lo spettatore si potrebbe chiedere “ma qua sta mentendo o ci crede davvero?”. Anche quando viene rivelato il piano ci potrebbe venire il dubbio. In fondo non sapremo mai se è prevalere è stata l’umile Estella o la (o)scenica Cruella. Due chiavi di letture dunque per questo film: da una parte secondo l’immagine-movimento e la sua immagine-affezione, dall’altra secondo l’immagine-tempo se si opta per un’ambivalenza di fondo.

La peculiarità dell’attrice 

Emma Stone forse la conoscete per le acclamate interpretazioni in “La la land” (Coppa Volpi a Venezia e premio Oscar) o “Birdman”. In entrambi i film interpreta personaggi vivaci e dinamici. Si definisce una persona molto emotiva e nervosa, è stata proprio la recitazione a curarla dagli attacchi di panico di cui soffriva da piccola. Un’ulteriore curiosità è il problema alle corde vocali di sui soffre a causa delle “coliche del neonato” che ebbe da piccola, una deformazione che la rende in grado di interpretare perfettamente i toni bassissimi che raggiunge Crudelia con certe sue espressioni.