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Categoria Cinema di immagine-tempo

Caparezza, Fellini, inconscio, o Della scelta

Caparezza, Fellini, inconscio, o Della scelta

(cosa esplora “Fellini e l’ombra” di Catherine McGilvray ora al cinema)

Il documentario “Fellini e l’ombra” ci permette di riprende in mano e approfondire alcuni aspetti di Federico Fellini già accennati

“Tendere l’orecchio e il cuore a qualcosa che è quasi dimenticato e che non vorrei aver dimenticato” racconta la voce di Fellini. Ecco, ritroviamo già in questa frase la cifra del cinema di Fellini: la purezza dei personaggi di La strada o di Cabiria, la difficoltà di amare del Casanova, l’impossibile bellezza di  Sylvia, de La dolce vita, lo strano rapporto con la memoria in Amarcord e la crisi del regista di Otto 1/2. 

“I tuoi spiriti dicono sei libero, ma devi saper scegliere” dicono al protagonista di Otto 1/2. La “scelta” sembra ossessionare continuamente Fellini, anche le sue ultime due opere incompiute, il Mastorna e Tulum esasperano ancora di più la difficoltà “concludere”, che troviamo in ogni suo lavoro. Tanto è vero che scrive al produttore Dino: ” questa storia mi sembra una serie di entrate in cui non riesco a entrare”.

Come scegliere? Scegliere significa sciogliere un dubbio, de-cidere (tagliare), dare un significato. Caparezza nel suo ultimo disco dice di ispirarsi al Mastorna e al Guido sopra citati. Nel brano La scelta racconta la storia di due personaggi, che compiono scelte opposte, ma entrambe valide in quanto meditate e accettate. In fondo il momento della scelta è solo un’illusione.”Saresti capace di scegliere una cosa sola e farla diventare la tua ragione di vita?” chiede Guido a Claudia. Ebbene la cosa è in realtà impossibile.

Quando scegliamo infatti escludiamo e paradossalmente impediamo il presentarsi del dubbio (infatti lo sciogliamo) e quindi impediamo il presentarsi della necessità della scelta che però ci ha portato a compierla! Bel paradosso, ma è così che si costituisce il Tempo secondo Bergson e Deleuze. In Differenza e ripetizione lo scrive chiaramente: “il presente costituisce il tempo, ma è il passato puro a garantire il passare del presente”.

Ed è lo stesso Deleuze, nel capitolo sulle immagini-tempo cristallo, a esprimersi come farà Fellini nella lettera a Dino: “Il problema non è più sapere ciò che esce, e come, dal cristallo, ma al contrario, come entrarvi. Si riconosce il metodo che via via apparterrà a Fellini”.  E si perché è un “cominciamento”, “quello che si vede nel cristallo è lo zampillio della vita, il tempo nel proprio sdoppiamento”, e in Fellini assistiamo a germi di cristallo. “Il presente che passa e va verso la morte, il passato che si conserva e trattiene il germe di vita, non cessano d’interferire, di intersecarsi”

Villeneuve e il cinema portato al proprio limite

Denis Villeneuve e il rapporto con l’immagine

Siamo abituati a descrivere ogni cosa che vediamo così tanto da pensare che immagine e parola siano la stessa cosa, ma con Bergson abbiamo imparato che l’immagine viene prima della parola. Prima di dire cosa stiamo guardando la stiamo già guardando. E’ il paradosso della percezione, che mentre si forma si confonde con il ricordo.  Villeneuve nei suoi film sembra aver intuito questa potenzialità propria dell’immagine.

L’immagine-tempo di Villeneuve: la percezione in formazione, il nuovo da percepire

Pensiamo ad Arrival e al recente Dune, due kolossal fantascientifici tratti da due intriganti romanzi: “quando” avviene esattamente quello che viene narrato, se spazio e tempo come li conosciamo vengono messi in discussione? Da che punto è vista la storia?

Ma pensiamo anche a Prisoners, un giallo-crime che ci insinua continuamente una curiosità incredibile verso la scoperta dei colpevoli, salvo farci capire, una volta scoperti, che questa curiosità non era tanto per i colpevoli ma per tutto quello a cui assistiamo, che il film stesso era “curiosità” verso un male senza (as)soluzione.  La preghiera iniziale, e gli ossessivi sguardi nel vuoto/vicoli ciechi  dei personaggi, non fanno che “bucare” in una situazione che è già degradata, proprio come l’alcool in cui si affoga il protagonista. In Sicario apre con l’orrenda e agghiacciante scoperta dei corpi nel muro, per poi virare l’horror in un action/spy movie vivace e stimolante, salvo concludersi in un desolante e cinico finale. Per farci ammettere che era meglio l’orrore della scena iniziale, perché almeno “innocente” nella sua anonima, per quanto inconcepibile, ripugnanza.

La cinepresa di Villeneuve è ” inquadratura spostata” fin dall’inizio, in una strana messa a fuoco, che è al contempo sfocatura, una profondità di campo che è al contempo “sospensione del giudizio”. All’inizio di Prisoners assistiamo al protagonista disperato alla ricerca della figlia rapita, ma al contempo assistiamo all’incredulità di questo improvviso avvenimento: la cinepresa si muove quasi fosse una ripresa amatoriale (ma non lo è), rimane ferma su angoli della casa come una “natura morta” qualunque, mentre si svolge un dramma (atipico per un film drammatico che dovrebbe centrarsi su primi piani disperati e dettagli angoscianti).

 

Nella foto una scena di Dune di Denis Villeneuve, Paul Atreides durante una visione del futuro

Con Dune Villeneuve scrive un manifesto del proprio stile

L’universo narrativo-simbolico di Dune

“Dune” non è mai stato facile da girare. Il romanzo di Frank Herbert, capostipite della fantascienza (George Lucas si è ispirato per Star wars per fare un esempio), è ricco di parole ed espressioni suggestive, incredibilmente scorrevoli nella scrittura, rispetto ai tempi del cinema.  Il surrealista cileno Jodorowksy ci aveva già provato, coinvolgendo raffinati disegnatori come Moebius e talenti di cinema come O’ Bannon (co-autore di Dark Star e Alien), ma il costo produttivo del progetto scoraggiò Hollywood. Lynch ereditò il progetto, ma dovette scendere a molti compromessi con la produzione, fino a rimanere egli stesso deluso dalla propria opera.

Villeneuve si confronta quindi, con un universo tutt’altro che semplice, e solo con questa consapevolezza possiamo confrontarci con questo nuovo sguardo al romanzo di Herbert. Si rinfaccia spesso a Villeneuve la lentezza dei piani sequenza (un po’ come con Sorrentino) ma non si coglie il senso di questi suoi movimenti di macchina, se non si presta attenzione ai momenti in cui vengono utilizzati e al loro rapporto con il sonoro.  Con uno sguardo attento possiamo infatti cogliere che le sue sequenza più riuscite sono quelle in cui i “non detti”, o le “sospensioni” di giudizio morale o di senso narrativo, vengono compensate da inquadrature altamente espressive, accompagnate da un “sonoro” predominante rispetto al “visivo” che risulta incompleto, mancante di informazioni.

Dune nel cinema di Villeneuve

Ecco perché il romanzo di Herbert si presenta ideale per la poetica di Villeneuve.  E’ vero, Villeneuve decide di trasporre solo metà romanzo e l’intreccio narrativo si fa molto debole (sembra quasi di vedere un trailer di 2 ore), vengono tagliate molte caratterizzazioni dei personaggi rispetto al libro, e privilegiate per parti più suggestive, ma le immagini sono molto forti e incredibilmente riuscite. Inoltre, il venir meno della trama, rinforza il protagonismo delle immagini. Sempre guardando il film senza pregiudizi e lasciandoci trasportare, possiamo cogliere come ogni sequenza non è mai montata a caso ma si inserisce con precisione in un discorso non compiuto narrativamente, ma poeticamente, nel senso che non c’è mai una conclusione, ma sempre un rimando (attenzione però, un rimando non esterno, bensì interno, come in una poesia).

Gli attori sono scelti e guidati perfettamente, la musica di Hans Zimmer è calzata molto bene. Villeneuve ha saputo regalarci un’opera molto raffinata esteticamente, omaggiando al contempo il romanzo, la tradizione ad esso legata e il proprio cinema, basato come analizzato anche in un altro articolo, sulla “sospensione del giudizio” e il rimando al proprio occhio interiore.

In foto una scena di Dune, Paul Atreides mentre cammina sulla spiaggia riflettendo sul proprio futuro

Il cristallo di tempo in Suspiria di Argento

Immagine-tempo cristallo: si vede al suo interno il paradosso costitutivo del Tempo: il presente che passa e il passato che si conserva

Immagine-affezione: tendenza motrice su una lastra immobilizzata, occupa lo spazio di esitazione tra una percezione e un’azione

Gli anni di piombo e la guerra fredda: un mondo troppo serio per essere reale

Suspiria esce nel 77, un periodo molto cupo in Italia, a causa del terrorismo e di un nuovo fermento politico post 68 capace di unire le nuove angosce della metropoli a nuove tensioni energiche-sessuali. A Bologna nasce anche la rivista Frigidaire con Andrea Pazienza. Suspiria segna il passaggio per Argento dal giallo all’horror e inventa un’esperienza cinematografica del tutto originale, che influenzerà diversi film futuri, e al contempo rimarrà unico ed irripetibile. Argento si serve infatti di una tecnica, a quel tempo appena diventata obsoleta: il tecnhicolor. E decide di sfruttarlo come mai nessuno aveva fatto prima, regalandoci un’esperienza psichedelica ai confini con la pittura.

La storia è semplice e non priva di buchi narrativi, ma ciò che interessa al regista non è tanto la consequenzialità logica degli eventi, quanto quella psicologica. Il film si fonda sul potere della suggestione.

Susie Bannet,  una giovane ragazza, si reca in una famosa scuola di ballo, salvo poi scoprire essere gestita da diaboliche streghe con l’obiettivo di manipolare e ammazzare. Il film mette in scena la traversata di Susie in questo mondo infestato. Già la scena iniziale, un banale arrivo all’areoporto durante una sera di fitta pioggia,  si trasforma in un’inquietante esperienza impregnata di diabolico. Le auto sfrecciano in maniera normale, come in qualunque città arrivati all’areoporto, ma la melodia e la pioggia ci suggeriscono che nulla di quello che stiamo vedendo sarà “normale”… Anche una banale interazione con uno stanco e introverso tassista sembra introdurre Susie alla diabolicità del mondo di Friburgo. Tutto è così banale e anonimo da diventare pericolosamente manipolabile dalle suggestioni. Da non sottovalutare la scelta di Argento di ambientare il film nella patria del gotico, la Germania.  La scena in cui Susie viene risucchiata dalle energie e costretta a ballare nonostante non riesca a reggersi in piedi per poi svenire a terra, sembra richiamare la spettacolarità e l’energia dell’irrazionale tedesco che esaltava le masse fino a esaurirle. Forse non è così banale la coincidenza di girare una scena di aggressione in una di quelle piazze animate da Hitler.

Come dicevamo, l’intreccio e le informazioni narrative circa personaggi e contesti vengono ridotte al minimo in quanto non necessarie allo stesso sviluppo della storia, e gli unici elementi che uniscono i personaggi, legandoli a questa strana esperienza, sono le suggestioni.  In fondo si tratta di una delle tante storie di streghe, non c’è nulla di complesso da capire.  Lo psichiatra esperto di queste cose da cui si reca Susie Banner in cerca di spiegazioni lo dice chiaramente: “si può benissimo ridere di queste cose ma ricorda: la magia è quella che cosa che ovunque sempre da tutti è creduta.” La scena è rivelatoria, e non a caso ripresa con giochi di specularità: il momento in cui lo psichiatra rivela questo pensiero chiave è ripreso attraverso il riflesso della porta di vetro, come a suggerire come l’intera esperienza non sia nient’altro che un gioco di riflessi e quindi effettivamente una materia di ipnosi e credenza. Il vero strumento diabolico delle streghe, come di ogni mago, è l’illusionismo e questo film ce lo dimostra. Ecco perché lo stratagemma (sempre illusionistico) di raccontare una storia di streghe, apparentemente fiabesca, vuole smascherare anche i meccanismi della politica dell’epoca: in fondo tra la magia nera e il terrorismo nero non c’è grossa differenza…

L’unica intenzione chiara, come ci dice lo psichiatra, è la conservazione della scuola stessa difendendola da chiunque rischia di farla scoprire o viene semplicemente vissuto come minaccia. (Anche qui un tema politico del “potere” che conserva se stesso).  Susie Banner con la sua purezza e forza d’animo è sentita fin dall’inizio come una minaccia. Da far notare come il viso e le espressioni del volto siano perfettamente in grado di mantenere un’inalterabilità di fondo e al contempo una grande emotività (dovuta al binomio dolcezza-rigidità delle fattezze del volto). L’insegnante subito si accorge della forza di volontà di Susie quando lei cambia idea riguardo la permanenza nella scuola durante la notte e chiede di stare fuori in affitto…l’espediente di farla svenire (citato sopra) farà in modo di farla rimanere contro la sua volontà.

L’immagine-tempo cristallo 

Deleuze analizzando la nouvelle vague e il neorealismo si rende conto di come i personaggi protagonisti non siano più in grado di rispondere a se stessi e al mondo circostante, quasi come fossero “spettatori” più che “attori”. Anche in questo caso siamo di fronte a un’immagine-tempo, ovvero a “percezioni ottiche e sonore pure” in cui gli schemi senso-motori classici vengono a mancare, perché i personaggi sembrano incapaci di rispondere di loro stessi, immersi in eventi visivi-sonori più grandi di loro. Per seguire un’immagine-tempo non bisogna quindi seguire dei centri sensi-motori (personaggi) come causa o effetto dei cambiamenti, ma il cambiamento stesso (l’immagine-movimento) come causa o effetto di se stesso, e quindi considerare il Tempo in se stesso. Nel caso di Suspiria abbiamo una serie di “eventi” terrificanti, apparentemente sconnessi, ma connessi dalle suggestioni visive. Il vero responsabile/autore e le sue intenzioni non le vediamo mai. Solo nelle scena dello psichiatra viene raccontata la storia della scuola e dello spirito della direttrice, ma circa le sue precise intenzioni, se non quella del “puro male” non ci viene detto nulla. Venendo a mancare un centro visibile da cui passano gli eventi e le azioni assistiamo a una di quelle immagini che Deleuze chiamava “percezioni ottiche e sonore pure”, o immagini-tempo. E in questo caso particolare assistiamo a dei presenti confusi con un passato puro (l’incendio della scuola in cui la Madre è morta e richiama il mistero dietro alla vicenda). Normalmente il “passato puro” è ciò che nessun presente-passato potrà mai raggiungere, è quello che Deleuze chiama il “virtuale” da non confondere con l'”attuale”. Nel caso della leggenda/profezia che fa da sfondo a Suspiria assistiamo a un presente-passato che si traveste da passato puro, cercando di ricondurre tutti i presenti alle proprie intenzioni diaboliche. Le streghe sfruttano costringono i personaggi a fare quello che loro stesse vogliono, impedendo ai presenti di passare, perché “posseduti” dalle intenzioni delle streghe. In questo senso la mancanza di volontà chiare dei personaggi e l’evanescenza degli ambienti rendono i presenti preda del passato puro. Il cristallo di tempo di Suspiria sfrutta la non chiarezza, il nascondimento, di un presente, per manipolarlo. Ad esempio in una sequenza: sguardo del cane ipnotizzato, sguardo del bambino incredulo ipnotizzante, e urla del bambino aggredito senza mostrare la scena riprendendo l’insegnante che attraversa il corridoio.  L’insegnante urla al pianista, il pianista interrompe la musica, l’insegnante accusa il pianista.  Il pianista reagisce indignato, l’insegnante butta a terra il suo vestito e lo caccia, il pianista se ne va contento “finalmente aria fresca, perché io sono cieco, non sordo, e chi vuole capire capisca…” (ripreso dall’alto con contorni sfocati richiamando la panoramica della scena in piazza in cui verrà ucciso).

Ecco la potenzialità del buco narrativo, alla fine ci domandiamo: ma allora Susie come riesce a sottrarsi all’incantesimo? Proprio sfruttando il punto cieco del passato puro, la via d’uscita dall’illusione, che è poi l’ambiguità costitutiva di ogni presente, la sua doppia faccia attuale-virtuale (si può uccidere una Madre che è già morta?). Non è un caso che nel remake del 2018 Guadagnino ricrei una Susie individuata dalle madri come possibile “destinata”, “erede” della scuola…

Per questo l’inquadratura del riflesso di Susie e lo psichiatra suggerisce allo spettatore la chiave di volta del film: solo la consapevolezza dell’ambiguità del presente (la sua confusione con un passato virtuale che lo fa passare) può liberare dall’incantesimo. Il pianista è cieco, non sordo, dice di aver capito, potrebbe fuggire da solo, invece si fa manipolare e non decide. Susie, al contrario, quasi non ci crede, ma il monito dello psichiatra le sarà d’aiuto: la stregoneria ovunque e da tutti viene creduta, le illusioni fanno parte della vita e occorre capire come ogni cosa abbia un suo “riflesso” (presente virtuale) per poterla affrontare davvero…e non limitarsi a una “pittura”. Susie capisce che la Madre muore dopo l’incendio, ma che specularmente può essere la madre muore prima dell’incendio.   In altre parole l’intenzione delle streghe era proprio quella: la distruzione fino al proprio annichilimento. Il passato puro è questo male perpetuato di cui non si vede, o meglio non si vuol far vedere, l’autore. Occorre quindi sfruttare il punto cieco per ribaltare la prospettiva (iconico il cambiamento di dimensioni nella scena finale) e imporre il proprio sguardo.

 

 

 

The Dreamers, “un po’ di possibile sennò soffoco”

The Dreamers, una scena del film

Immagine-movimento: cambiamenti di durata rapportati a dei centri senso-motori (percezione e azione, sensazione e movimento).

Immagine-affezione: occupa lo spazio di esitazione tra la percezione e l’azione. Solitamente il volto in primo piano, ma può essere qualunque cosa esprima una tendenza motrice su una lastra ricettiva immobilizzata. Unione dell’espressione e di ciò che la esprime, ma non si lascia esaurire da essa.

L’inconscio “ne regrette rien”

“The dreamers” è un film del 2003 diretto da Bernardo Bertolucci, che raccontando la storia di tre studenti durante il Maggio parigino del 68 cerca di ripercorrere le atmosfere di quel fermento politico, culturale e in particolare cinematografico.

Bertolucci si serve dello stretto indispensabile per comporre la storia, un giovane americano in visita-studio a Parigi fa la conoscenza di due fratelli francesi, condividendo con loro un’intera casa per un mese, durante le vacanze dei genitori. I due fratelli condividono un rapporto morboso, ancora infantile, mentre il giovane americano è molto legato alla madre con visioni ingenue e idealizzate sul mondo che lo circonda (lo capiamo da come scrive le lettere alla madre idealizzando gli amici secondo le aspettative materne). Il regista ci fa capire subito la caratteristiche dei personaggi e il loro contesto di relazioni, i centri del movimento sono chiari (immagine-movimento). Nonostante ci risulti facile capire la vicenda, provando quasi tenerezza per i giovani in crescita, la chiusura delle quattro mura e la sospensione del mondo circostante sembra avvicinare anche noi alla con-fusione tra sogno e realtà con cui i ragazzi giocano fino a rischiare tutto. Siamo in una situazione simile a certi film di Bergman, in cui i personaggi vengono indagati fino allo smarrimento esistenziale. (Probabilmente la rivista con in copertina “Persona” di Bergman, che compare sullo sfondo in una scena, non è così casuale). Bergman era solito portare l’immagine-affezione fino al proprio limite esprimendo l’essenza della “paura del vuoto”, regalandoci fotografie indimenticabili delle inquietudini umane. L’immagine-affezione veniva così disfatta al suo interno, espressa da un’espressione del vuoto in grado di pietrificarla.

Bertolucci capisce le paure dei protagonisti, smarriti in un mondo che ha perso le coordinate (addirittura i genitori sembrano dei bambini mai cresciuti, il padre che tocca sensualmente la figlia e la madre che si fa bella con Matthew).

Nonostante i tre giovani vivano ancora in un mondo immaturo di illusioni  (“lo schermo forse schermava noi dal mondo” dice Matthew) il mondo attorno a loro non sembra meno contradditorio e illuso. Il padre di Thèo vive con un idealizzazione smisurata di se stesso e con un altrettanto rapporto morboso con la figlia, quasi contesa con il figlio-rivale. La madre stessa sembra voler sedurre Matthew da come lo guarda.  Qualsiasi confine-regola viene a mancare, così come nelle strade parigine in subbuglio.

L’immagine-affezione e il suo limite in Bertolucci 

Viene da chiedersi: chi è più fuori dal mondo? il mondo fuori di sé o chi rimane dentro di sé nelle proprie illusioni? Il padre di Théo urla al figlio: “non puoi criticare il mondo standotene fuori a guardarlo” e il figlio controbatte: “proprio te parli che hai scritto una petizione è una poesia, e una poesia una petizione, e non hai firmato la nostra petizione!” Ma Théo non è in grado di controbattere veramente al padre, dato che vive mantenuto dai suoi tanti soldi…per non parlare degli ideali non violenti professati e poi traditi durante la rivolta…la sfida della crescita è ridimensionarsi trovando un proprio posto nel mondo, ma la difficoltà è quando il mondo non si presenta come un posto, ma come u-topia, incerto, dubbio. Ma il finale ci insegna che solo accettando se stessi come u-topia si può trovare il proprio mondo, che altro non è che un mondo tra i mondi. Il superamento del narcisismo è la consapevolezza che anche il nostro corpo è un Altro, o come scriveva Focault, che è l’utopia delle utopie, l’origine delle utopie.

I ragazzi “giocano lo smarrimento”, simulano scene dei loro film preferiti estrapolandole dai loro mondi e cercano di fissarsi nelle loro abitudini, mistificandole, per non affrontare lo smarrimento. La telecamera segue il loro gioco con complicità, portando l’immagine-movimento al suo confine, in un’immagine-affezione del desiderio. (in controtendenza a Bergman che la rapportava alla paura del vuoto). L’immagine-affezione del desiderio invece di disfare il volto nel suo limite con il vuoto (Bergman) lo smarrisce nelle ambiguità che lo avvolgono. Anche nella scena finale il tentato suicidio di Isabelle non può compiersi, perché avvolto (proprio come si avvolge Mouchette) da un’ambiguità rimasta in sospeso…

La domanda disperata finale sembra urlare: è questa la voglia di morire? uguale alla voglia di vivere un momento per sempre? viene rimessa in questione dalla folla urlante “dans la rue! dans la rue!” Allora è questa la voglia di vivere un momento per sempre? Infilarsi in una folla con le proprie urla? Il gusto di contraddirsi e perdersi? L’inconscio è per-verso ricordava Deleuze sempre a proposito della carica eversiva del 68…ecco forse il vero significato della “pietra rotolante” o del rullino cinematografico della nouvelle vague…non si può fermare l’inconscio perché come diceva Lacan esso non conosce la parola “no”… Forse anche i genitori avrebbero bisogno di scendere in piazza e urlare per mettere in scena catarchicamente le proprie contraddizioni…

Anche il gesto con cui Isabelle reagisce al “trauma di Narciso” è catarchico: cerca di suicidarsi insieme ai ragazzi con la canna del gas, e proprio mentre mette in atto il piano si alternano le immagini del finale di “Mouchette” in cui la giovane ragazza, dopo una vita di fatiche e traumi si getta nel fiume. Isabelle srotola la canne del gas con la stessa paradossale amorevolezza materna con cui la ragazza si “srotola” nel fiume. Bresson amava riprendere gli eventi mostrandone solo l’essenziale e trasformandoli in “puri affetti”: c’è un fil rouge che lega il cinema di Bresson alle carellate di Bertolucci, non a caso entrambi amanti della “mano”. Bresson fondava il proprio cinema sulla mano, e sulla sua capacità di “toccare” senza vedere. Bertolucci al contrario sembra voler vedere senza toccare, in una paradossale visione “intangibile”, “inafferrabile”, “invisibile”. Il paradosso è questo: se noi potessimo vedere senza “sentirci” e sentire, perderemmo il “senso” della vista e sarebbe tutto omogeneo come al buio. Ma l’essere nel nostro corpo non gioca proprio con questo limite?

Il 68 e la crisi dell’immagine-movimento 

Non è un caso che il filosofo Gilles Deleuze, di cui si parla tanto nelle nostre “Frontiere”, abbia maturato la propria filosofia proprio in quegli anni. Bertolucci, però, non si riduce a ripetere quello che già il cinema del 68 faceva: mostrare lo smarrimento attraverso una crisi dell’immagine-movimento e “percezioni ottiche e sonore pure”, in cui i personaggi, perduto il legame con il mondo, lo ritrovava no in una “credenza” (accordi tra le inquadrature reinventati etc…) che restituiva loro il legame perduto. Godard a proposito di Bande a part scriveva: “è il mondo che vive una brutta sceneggiatura, non loro”. Bertolucci ripercorre quel periodo a partire dai nostri anni, in cui la credenza nel mondo è stata ricomposta e il 68 sembra ormai una parentesi chiusa.

A restituirci le atmosfere del periodo è la “tensione” del desiderio, che per esprimersi ha bisogno della domanda e dello smarrimento.

Per questo il finale in sospeso è così importante: a cosa si è affacciato quel mondo in rivolta? Una volta scoperto di essere padroni dei nostri sogni, ci sentiamo soli, ma al contempo più liberi, ma ora?

Titoli di coda: “Non…je ne regrette rien…”

Caparezza, un musicista perso nel Cinema

  Deleuze in “Logica del senso” e “Differenza e ripetizione” ci scrive che una parola ha sempre bisogno di un’altra parola per dire il suo senso (è il paradosso del linguaggio). Caparezza nel nuovo disco cerca l’essenzialità per poter far bastare le parole a se stesse, anzi per “parlare le parole”

PER UN’ESPERIENZA COMPLETA NELLA FORESTA DEL DISCO SI CONSIGLIA https://www.exuviaexperience.com/ 

Come preannunciato in un’intervista, Caparezza dichiara di ispirarsi per questo viaggio a Guido (citato nel brano Eterno paradosso) e al Mastorna (citato come guida in exuviaexperience.com), due personaggi centrali del cinema di Federico Fellini.

Otto 1/2 racconta la storia di Guido, un regista che cerca di fare un film, ma senza riuscire a trovargli un senso. Ed è lo stesso Fellini a scegliere questo titolo perché non riesce a trovare un altro nome di senso compiuto per definire questo film (esso viene dopo sei film e tre in collaborazione). Caparezza nel brano Eterno paradosso cita una battuta che Guido pronuncia nella scena finale: “non ho proprio niente da dire, però voglio dirlo lo stesso”. Mastorna invece è il protagonista dell’ultimo script di Fellini, un progetto a lungo meditato ma mai realizzato.

Fellini apparteneva al “neorealismo italiano”, una corrente nata, un po’ come la nouvelle vague, in contrapposizione al cinema classico, con il fine di raccontare un nuovo mondo senza ideologie, in cui ci troviamo smarriti, e in cui come scrive Deleuze “gli eventi che accadono ai personaggi non gli appartengono interamente così che i personaggi non sono più attanti, ma spettatori, facendoci passare dall’immagine-movimento all’immagine-tempo”. Ciò che però rende il cinema di Fellini un caso unico nel neorealismo, è la sua capacità di far dipendere questo smarrimento da un’immagine-tempo cristallo. Il cristallo è quell’immagine in cui si vede il tempo nel suo sdoppiarsi come presente che passa e passato che si conserva. In Fellini ricorre la sensazione di dover ricordare ma senza capire perché (se sapessimo cosa ricordare infatti ce lo ricorderemmo!). E’ un passato puro orfano di presente che passa, o come lo definisce Deleuze un “germe” di cristallo, l’immagine del “cominciamento”.

E’ così che possiamo capire meglio la cruciale frase nel brano Eyes wide shut: “Io non voglio andare in cerca di me stesso perché rischio di trovarmi per davvero”: se Fellini-Caparezza trovasse finalmente se stesso finirebbe per dimenticare il “passato puro” che è invece il vero smarrito.

Eyes wide shut è l’ultimo film di Kubrick e anche qui il riferimento non è casuale: il cinema di Kubrick è caratterizzato dall’impossibilità di distinguere il vero autore di ogni avvenimento, come se tutto fosse “pienamente visibile” e al contempo “nascosto” (pensiamo anche all’Overlook hotel di Shining). Il movimento viene meno (anche in questo caso Deleuze la chiama “immagine-tempo”), perché non riusciamo a scorgere cause ed effetti chiari, l’estremo fuori coincide con l’estremo dentro. Le cose qui devono ancora iniziare nel senso che sono avvenute in un tempo a noi inaccessibile (non ne vediamo l’origine, l’inizio) e nonostante ciò subiscono modifiche da cose già presenti altrettanto senza fini.