"Non c'è mobile che non si distingua dal movimento eseguito [...] tutte le immagini si confondono con le loro azioni e reazioni" Henri Bergson

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"Le Frontiere" è un blog che riprende il confronto tra filosofia e cinema cominciato da Gilles Deleuze, sulla scia di Henri Bergson, negli anni 80. "Entrare nel cinema è rientrare nel mondo, nello stesso mondo dove ogni rappresentazione è fallita" enrico ghezzi
"Non c'è mobile che non si distingua dal movimento eseguito [...] tutte le immagini si confondono con le loro azioni e reazioni" Henri Bergson
"se c'è una foto essa è già scattata in tutti i suoi punti", dichiara Bergson.
E' il tempo come misura del movimento
"I movimenti sono chiarissimi in quanto immagini e non c'è motivo di cercare nel movimento altro da quanto non vi si vede"
"Nessuno sa cosa può un corpo" asserisce Deleuze riprendendo Spinoza.
Mi chiamo Marco Aliano (da qui con molta fantasia alianomovies), sono sempre stato appassionato di cinema, nel 2013-15 ho frequentato due corsi (sceneggiatura e regia) alla scuola "Sentieri Selvaggi". Ho prodotto diversi lavori ma nel frattempo ho approfondito l'iinteresse per la filosofia. Mi sono laureato nel 2021 con una tesi sul cinema e la filosofia, da cui nasce "Le Frontiere".
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"Inside Jena" Best Video Backstage Cortinametraggio Film Festival
Video backstage di alcuni shooting di Swan Bergman
Sei anche tu un filosofo con molte domande o semplicemente un cinefilo curioso? Per collaborare a "Le Frontiere" invia una mail a : marcoalianofilmmaking@outlook.it
Prendiamo in esame una scena de “La grande bellezza”, quella in cui Jep Gambardella parla con un suo amico “mago”/illusionista.
La scena inizia con una panoramica in movimento che si avvicina lentamente a Jep, il quale appare dopo pochi secondi mentre si avvicina. Prima nota: la telecamera è già dentro al luogo verso dove Jep si sta dirigendo, e non solo, la scena inizialmente è deserta e Jep appare dopo pochi secondi.
Jep e la telecamera si vengono incontro fino a che non vediamo Jep in piano medio intento a guardare dall’alto verso il basso con un certo stupore. Notiamo anche come egli tenga una mano in tasca e con l’altra mano una sigaretta, mentre assume una postura sbilenca (anche la luce si disegna a mezza luna coprendogli gli occhi).
Con una panoramica da dietro finalmente possiamo vedere cosa Jep sta osservando, una giraffa. Allora non era così deserto quel luogo? Il deserto è abitato. E questa è una prima eco heidegeriana/holderliana.
Di nuovo inquadrato in primo piano, Jep si toglie il cappello mentre la telecamera si alza sempre di più sopra di lui, con un movimento vertiginoso, tanto che verrebbe da dire: sta alzando il collo anche lui?
Ed ecco la giraffa finalmente in soggettiva.
Una voce fuori campo “Jep!” E’ Arturo, il suo amico mago che si è accorto di Jep e si avvicina a lui chiedendogli con un accento straniero “che ci fai da questi parti?” “Arturo? Ma che ci fai tu qua?” risponde Jep. “Come che ci faccio? Provo il mio spettacolo di magia…questo è il numero clou di domani sera, la scomparsa della giraffa!” (con fare cadenzato)
Dopo un dialogo campo-controcampo sul numero di magia, Jep inquadrato in piano medio, con la presenza di Arturo solo suggerita, chiede “e allora fai sparire pure a me!”.
Seconda nota: la presenza dell’altra persona viene suggerita, ma paradossalmente essa si fa maggiormente sentire. Si può dire che la presenza persiste nel suo essere presente anche se non la si guarda per intero. Non solo ma nel piano medio di Jep questa volta l’inquadratura si ferma insistentemente come a intensificare il sentimento provato dal protagonista. Con il solo cambio di prospettiva (un trucco) Sorrentino ci mostra l’interiorità e il sentimento del personaggio.
E infatti Arturo risponde: “Ma Jep…se si potessero davvero far sparire le persone pensi che me ne starei qui a far queste baracconate? E’è solo un trucco, è solo un trucco“. E mentre parla viene inquadrato lasciando maggior spazio vuoto a sinistra (la direzione da cui parte lo sguardo che rivolge a Jep). Di nuovo la presenza della persona viene suggerita da un’inquadratura per così dire “inter-soggettiva”.
Mentre Arturo rimarca “è solo un trucco” dall’alto vediamo parte della giraffa, Arturo che se ne va e un’altra figura che compare dietro a Jep: è Romano, il suo amico. NEL MOMENTO in cui Jep guarda Arturo viene guardato da Romano, ecco l’illusionismo.
La venuta in avanti dell’amico avviene mentre Jep sta guardando l’andata provvisoria dell’altro. Non si fa in tempo a lasciare qualcosa che ne arriva un’altra.
Romano è triste anche se dice che il suo spettacolo è andato bene, “hanno applaudito”. “E allora perchè sei così triste?” “Ma non so’ triste..”
“Che ci fa quella giraffa là?” chiede Romano, ma più per cambiare discorso e rimanendo solido nel suo cruccio (per tutto il film è un personaggio malinconico, non a caso in questa scena vestito di nero).
Ed eccolo dopo inquadrato in primo piano mentre racconta a Jep di essersi stufato di Roma e di voler andarsene via.
Ma anche questo è solo un trucco…un’escamotage, una reazione. Il nostro far su e giù, il nostro camminare è il nostro pro-gettare (il nostro essere presi da qualcosa), direbbe Heidegger. E’ il nostro modo essere-al-mondo.
E infatti dopo che Romano se n’è andato appare Arturo che ha eseguito la scomparsa della giraffa NEL MOMENTO in cui Jep stava salutando l’amico e si stava per rigirare. “Jep? Hai visto?”
Arturo non solo nel frattempo che Jep parlava con Romano era tornata (anche se lo deduciamo) ma ha anche eseguito il numero di magia (anche se non sappiamo esattamente quanto ci abbia messo a farlo). E in fondo anche se Jep fosse rimasto a guardare avrebbe comunque visto una magia, e non visto del tutto il trucco.
Ma attenzione, si fa un errore a pensare ai due piani della scena come divisi, la magia sta nella complementarietà dei due piani, nel fatto che Jep partecipi a una sola scena. Non fa in tempo ad accadere una cosa che accade anche l’altra.
Possiamo dire con un linguaggio heidegeriano, che si lasciano-accadere le cose proprio mentre le si man-tengono. In questo senso si collega e si custodisce, secondo Heidegger era questo il senso del logos (parlare, legare) inteso come “raccoglimento”.
“Entrare nel cinema è rientrare nel mondo, nello stesso mondo in cui ogni rappresentazione è fallita…,perché forse davvero il cinema è più grande della vita, bigger than life” enrico ghezzi.
Si può dire molto a proposito dell’ultimo film di Steven Spielberg ma alla fine questa frase di Ghezzi sul cinema, quasi “lapalissiana”, ci sembra la frase giusta per rendere giustizia a un film che è al contempo un’auto-biografia, un semplice film tra tanti, un film-testamento, di uno degli autori hollywodiani più iconici e incisivi di sempre.
Prima grossa questione quando si parla di Steven: commerciale o d’autore?
Proprio come racconta il film stesso, Spielberg ha sempre navigato tra il lato “scientifico, tecnico, logico” del padre e quello “creativo, emotivo” della madre, e forse in questo stesso dualismo si nasconde una sua cifra distintiva, che lo distingue da una facile classificazione.
Pensiamo all’inizio del film (e della sua vita): il protagonista Sammy cerca di ricreare con il proprio treno giocattolo quell’incredibile esperienza irripetibile della sua prima volta al cinema. La tecnica insiste, si perfeziona, migliora, e tutto per cercare di rievocare qualcosa che in realtà è inevocabile: un incontro, con qualcosa che lo ha travolto. Ironia, a essere mostrata è proprio una scena con un treno che travolge tutto, presente nel film “Il più grande spettacolo del mondo” di DeMille (film che fu davvero il primo visto al cinema di Steven). Sammy prova a ricreare quella scena con il trenino giocattolo regalatogli dal padre, ma ecco che il trenino si rompe, la realtà è diversa dal film.
Non si potrà mai propriamente vedere ciò che Sammy ha visto davvero al cinema.
E’ il primo momento di consapevolezza di Sammy.
Il padre si arrabbia e gli ricorda che bisogna imparare a rispettare i regali ricevuti. E così accadrà per i lavori seguenti: il filmino di famiglia ” si romperà” alla scoperta, durante il montaggio delle riprese, di una relazione segreta della madre con l’amico di famiglia. Sammy mostra alla madre quanto scoperto durante le riprese, ma tutto ciò accadrà in uno stanzino buio, dove lei rimarrà da sola con le immagini proiettate sullo schermo. Per poter comprendersi (mamma Mitzi e Sammy) devono camminare su quel confine che li separa. Da qui il buio, l’unico spazio che può ospitare quell’incontro.
La cinepresa diventa letteralmente un terzo braccio. E non solo perché a un certo punto la porterà sulle spalle quasi come un’amica. Una compagna speciale come E.T., capace di essere amichevole con tutti, e la cui stra-ordinarietà e estraneità è solo la misura dei confini che separano le persone le une dalle altre. Pensate ai conflitti tra gli esseri umani, tutti presi dai propri diversi interessi elevati ad universali, incapaci di riconoscere E.T. Confondendo letteralmente il dito (quel dito) con la Luna.
In fondo è quello che Steven/Sammy vive nella sua famiglia e con i suoi coetanei, conflitti più grandi di lui e con i quali dovrà misurarsi. Per andare davvero incontro all’altro occorre “andare oltre” l’altro stesso. Essere consapevoli dello scarto che ci separa. Ecco perché l’incontro tra Sammy e sua mamma avviene per il tramite di uno stanzino buio che li separa.
“Incontro ravvicinato del terzo tipo” per richiamare un suo film. O “il ponte delle spie” per citarne un altro.
Ma non è l’essenza del cinema stesso? Come ricorda Massimo Donà nel suo “Cinematocrazia” il cinema per la sua vocazione all’universalità “sospende l’ancoraggio di un soggetto a un mondo” (riprendendo le parole di Deleuze).
Il desiderio di vedere e andare oltre , il desiderio del bambino di scoprire il mondo, di toccare l’altro, di entrare in relazione, è ciò che paradossalmente ci fa ripiombare in noi stessi, tocchiamo l’altro solo nel momento in cui prendiamo consapevolezza dello scarto incolmabile che ci separa da lui. Ecco tutto il valore del dito di E.T.
Ed ecco che Mitzi, la mamma di Sammy, prende la macchina e i bambini per guidare senza una meta precisa durante il maltempo. Sembra pazza, ma lo dicevano anche a Truman quando capisce di essere in un “reality show” e comincia a guidare come un matto in cerca dell’orizzonte fittizio. “Non permettere mai a nessuno di decidere per la tua vita” dice mamma Mitzi a Sammy, proprio come Truman capisce di essere di più di quello che il Demiurgo del reality pensava…di non essere confinabile in un orizzonte..
Quell’orizzonte che non sta mai al centro, “altrimenti è un brutto film!” asserisce perentorio John Ford nel celebre colloquio di 5 minuti con Sammy! (avvenuto realmente a Steven)
Come non ricordare il nostro Deleuze, amante del decentramento (“faccio e disfo i concetti a partire da un centro decentrato”), “Il cinema, con la variabilità dei suoi punti di vista, sospende l’ancoraggio di un soggetto al mondo” (da Immagine-movimento, Cinema 1), e ancora “”La mobilità dei suoi centri permette di accostarsi al regime acentrato dell’immagine-movimento, o piano di materia” .
Ecco perché non ci stancheremo di ripeterlo: il cinema nella sua essenza è un flusso che ci restituisce l’unicum del “qui e ora”.
Le creature di Spielberg (gli squali, i dinosauri, gli alieni…) altro non sono che l’incarnazione di questo “palloncino che si gonfia” che è il cinema. Misura di ciò che non si può misurare. “1941 allarme a Hollywood!” citando uno dei suoi primi film, che ebbe problemi nelle sale per eccessivo volume acustico…attenti alla bomba Spielberg!
Era da un po’ che alle “frontiere” volevamo trattare di questo libro. L’autore Massimo Donà, filosofo allievo di Severino, decide di parlare ancora di cinema (dopo il volume “Abitare la soglia”) e prendendo in considerazione la filosofia bergsoniana-deleuziana.
“C’è qualcosa in Deleuze che mi attrae proprio in ragione della distanza che mi separa da esso”, dichiara nelle prime pagine. Formatosi sui ben più complessi volumi di idealismo tedesco, Hegel e Severino, il filosofo ammette una difficoltà e uno stimolo inedito, e non tanto per una complessità concettuale, quanto per la diversa provenienza filosofica del filosofo francese. Insomma, distanza, vicinanza, non si capisce bene dove si trovi Massimo Donà, se non sempre su qualche “soglia”, parola che a lui piace spesso evocare.
E non è la prima volta che lo si sente parlare in questi termini, anche in rapporto al suo maestro ha spesso dichiarato di avere ereditato una profonda vocazione alla “radicalità” che lo porta a prendere altre strade in virtù dell’eredità stessa. La solita storia dell’allievo che supera il maestro, ma occorre entrare più nel merito del suo discorso per coglierne la portata.
E’ Deleuze stesso a segnalare come la filosofia “operi un taglio nuovo tra le cose, riunendo in uno stesso concetto cose lontane e allontanando cose vicine”, la speculazione filosofica si nutre di “radicalità”, di incontri/scontri tra concetti lontani costretti a rilanciare ulteriori concetti e assoluti. Insomma, già dichiarando il proprio “modus philosophandi”, Donà, quasi senza accorgersi, si interfaccia con l’immanenza deleuziana.
Donà, in compagnia del pensiero deleuziano, si interroga niente di meno che sullo statuto dell’arte cinematografica in relazione alla filosofia. Come se il senso ultimo della filosofia convergesse con la missione artistica del cinema. Deleuze scriveva che il filosofo opera per concetti su un piano di immanenza, mentre il regista per rapporti di tempo/durata, ma allora cosa significa pensare/vedere (therein)/sentire?
Il cinema per Donà sembra addirittura realizzare quella vocazione propria della filosofia ma sempre difficilmente “toccata” con mano, a causa dei limiti della logica, quella vocazione a dire la verità assoluta che come tale non potrà mai confondersi con le determinatezze, le sole con le quali abbiamo continuamente a che fare. Quella dissimulazione (o sospensione di giudizio, epoché) necessaria al coglimento dell’assoluto.
A tal proposito il filosofo cita il geniale critico deleuziano Enrico Ghezzi: “senza che nulla cambi nella vita reale”.
Giudizio è scelta tra determinatezze. Sospinti dal senso pratico (giustamente, qui non lo si vuol negare ovviamente) siamo convinti di avere il controllo assoluto sul senso della nostra vita. In questo senso confondiamo continuamente la prassi con il theorein (contemplazione, filosofia). Ma attenzione, non si tratta di relativismo, la filosofia vuole arricchire la realtà, non sminuirla.